“Woyzeck” di Georg Büchner, nella riscrittura di Federico Bellini e con la regia di Tommaso Tuzzoli, nuova produzione del Teatro di Napoli – Teatro Nazionale e Casa del contemporaneo, debutta al teatro San Ferdinando di Napoli in prima assoluta.
Uno spettacolo, quello a cui ha assistito un folto e competente pubblico, nient’affatto facile, anzi decisamente impegnativo soprattutto sul piano della scrittura e conseguentemente dell’interpretazione.
Infatti questo dramma, intenso e straziante, scritto del tedesco Büchner (1813-37), per quanto ascrivibile pienamente al Romanticismo, nulla ha di romantico e tutto, invece, ha di modernissimo ed attuale, dal realismo dei contenuti, strettamente sociali e politici, all’espressionismo della sua resa.
Inoltre “Woyzeck”, ultima opera dell’autore, ci è pervenuto incompiuto o, quantomeno, allo stato di opera “aperta” e frammentaria, oltre al fatto che il suo manoscritto rimase chiuso nel cassetto per parecchi decenni,
prima di essere rispolverato ai primi del Novecento e di entusiasmare l’ambiente delle avanguardie, divenendo banco di prova per svariati artisti, musicisti e cineasti:
celeberrima l’opera lirica di Alban Berg (1925), nonché la trasposizione filmica di Georg Klarer, prima di una lunga serie.
Lo sconcerto che certamente il testo destò agli esordi e che ancor oggi provoca, scaturisce soprattutto dalle tematiche contenutevi, scabrose e terribili, ossia l’ingiustizia sociale, l’autoritarismo che degrada l’uomo, la prepotenza dei tracotanti, la povertà l’emarginazione individuale e la follia, e non ultimo il femminicidio:
tema quest’ultimo, tragicamente attuale (così come gli altri, del resto).
Ultimo ma non da ultimo, c’è l’elemento della lingua tedesca del testo:
lingua ardua e complessa, stratificata e mimetica, ossia calzata sui vari personaggi, e qui un ulteriore merito di questo allestimento sta nell’aver agito su una nuova traduzione italiana,
che verosimilmente fosse più aderente ad un originale così sfaccettato e allusivo, rispetto alle versioni precedenti.
Per chi non lo rammentasse, è la storia del povero soldato Franz Woyzeck, che cerca caparbiamente di sostenere la sua compagna Marie ed il loro figlioletto.
Però il suo carattere tende al malinconico e al meditabondo, anzi di più:
Woyzeck ha una psiche compromessa da chissà quali traumi, verosimilmente di guerra, e dunque patisce strane visioni e cupe premonizioni del futuro, un futuro tinto di rosso e sempre oppresso da guerra e povertà, di cui invano cerca di far partecipe i pochi che gli vogliano bene, ossia la donna e il commilitone e amico, Andres.
Per il resto, tutti lo maltrattano: in primis il suo capitano, a cui Woyzeck si umilia facendogli la barba, e che non fa che irriderlo e denigrarlo;
e ancor più il dottore, a cui il soldato si rivolge per guadagnare qualcosa, diventando sua cavia in estenuanti sessioni a base di stravaganti esperimenti, disquisizioni paradossali (in pseudo-latino) e diete improponibili (le traduzioni precedenti dicevano “fagioli, solo fagioli”, qui invece è “piselli, nient’altro che piselli”).
Quanto alla donna, la bella e voluttuosa Marie, madre forse senza volerlo (di un bambino che in questo allestimento non compare mai) e compagna non troppo fedele, ella, pur amando il soldato, è infatti affascinata anche dagli altri e più aitanti militari, e cede dunque alla vanità o forse al miraggio di una vita migliore, diventando amante di un tracotante ufficiale, il Tamburmaggiore, un uomo rude e vizioso.
Intanto la crescente gelosia di Woyzeck viene alimentata dai due subdoli antagonisti, il capitano e il dottore, i quali del resto interpretano facce diverse dello stesso Potere autoritario, finché il nostro non crolla emotivamente e psichicamente:
ad un ballo presso una taverna il soldato sorprende la donna con l’ufficiale, sfida quest’ultimo, ma ne viene sconfitto e per l’ennesima volta umiliato, così che i suoi tormenti interiori e le sue allucinazioni aumentano a dismisura, al punto tale da indurlo a uccidere a pugnalate la donna. Il resto, nel finale, è tutta una spirale autodistruttiva e senza catarsi.
La cupezza tremenda di tale storia è sottolineata in questo allestimento da un dialogo narrativo continuo e ininterrotto, concentrato in un atto unico e molto serrato, e con una sola scena, dominata da una nuda pedana rialzata a forma di disco inclinato, attorno alla quale o sopra la quale agivano a turno i quattro protagonisti
(Tony Laudadio-Il Potere, Alberto Boubakar Malanchino-Woyzeck, Federica Sandrini-Marie, Edoardo Sorgente-Tamburmaggiore), praticamente sempre in compresenza.
Già da ciò si vede che la presente versione ha optato per una drastica riduzione dei ruoli, visto che nella figura del Potere, benissimo interpretata da un Laudadio in gran forma, sono compendiati sia il capitano che il dottore;
e visto che vari personaggi comprimari sono del tutto omessi, come ad esempio l’amico Andres, che in realtà rivive entro lo stesso personaggio di Woyzeck come un suo doppio, o un alter ego.
In effetti, grande centralità è data al tema della follia e dello straniamento patito dal protagonista, il quale si presenta subito al pubblico in modo molto fisico e concreto, prima come corpo, in preda a strane contorsioni, e poi come persona parlante, presto in preda al suo delirio, a tratti anche poetico.
In un certo senso Malanchino partiva avvantaggiato, visto che l’attore appare dotato di notevole e muscolosa presenza scenica, ma per converso non sempre, a dir il vero, si è ammirata la sua dizione, che è apparsa a volte inficiata da un ritmo verbale un po’ accelerato.
Ad esempio, non si sono pienamente apprezzate alcune battute giustamente famose del testo, patetiche e tragiche come le seguenti:
“Signor capitano, il buon Dio non starà a guardare per quella povera creaturina se sia stato detto l’amen prima che fosse fatta”; “Noi altri siamo infelici sia in questo che nell’altro mondo! Credo che se andassimo in paradiso, saremmo costretti a dare una mano per far tuonare!”.
Molto convincente, invece, l’interpretazione di Laudadio nei panni del Potere, il quale sembra aver aggiunto al personaggio, oltre al noto significato di burattinaio senza fili, cinico e spietato, anche una nota umoristica e clownesca, specialmente quando presenta al pubblico il suo uomo, Woyzeck appunto, come se fosse un fenomeno da baraccone, una bestia umana (“umana bestialità” è il motto che risuona varie volte);
il che, beninteso, a chi guardava non appare affatto vero, visto che per tutti noi Woyzeck è solo, almeno fino a che non si macchia del femminicidio, un incolpevole povero Cristo, come lui stesso si definisce, lucidamente.
Quanto agli altri due attori, la Sandrini e Sorgente sembrerebbero formare qui la classica coppia teatrale degli amorosi, e peraltro tocca a loro intonare anche il maggior numero di canzoni udite in scena.
A proposito di musica, è chiaro che siamo lontani anni-luce dalle inarrivabili sonorità composte a suo tempo da Alban Berg per questa stessa storia (e qui nemmeno accennate); comunque ci è parsa ugualmente bella la scaletta musicale, comprendente pezzi come la celeberrima Ninna-nanna di Brahms (“Guten abend-Gute nacht”)
ed altri brani in tedesco e in inglese, nonché una musica strumentale composta su un bel basso ostinato ed un arpeggio che si è udita in corrispondenza di una lunga riflessione del Potere sul concetto del tempo che passa e dell’eternità.
D’altra parte i due amanti interpretano l’eros, e lo fanno senza mezzi termini:
abbracciandosi, desiderandosi ed amandosi in modo plateale e un po’ selvaggio, così come assai realistico è il registro linguistico impiegato dal personaggio femminile (“Sono una puttana, nient’altro che una puttana”).
Un’altra buona idea ci è sembrata la compresenza dei personaggi e soprattutto la combinazione tra interazione diretta e sfalsata (o allusiva) tra di loro: vale a dire che, quando ad esempio si giunge alla scena-clou dell’omicidio di Marie,
il coltello brandito da Woyzeck si mantiene ben distante dal corpo della donna, mentre sarà un altro meccanismo azionato dalla pedana a simulare il taglio della lama, con conseguente accasciamento del personaggio.
Dopo questo gesto tragico e folle, il protagonista enumera freddamente e come estraniandosi da se stesso le concitate vicende conclusive:
l’incontro in osteria con un’altra donna, il vedersi macchiato di sangue e il riconoscersi come assassino, la fuga disperata, l’annegamento in uno stagno, infine la scena dei bambini che giocano ed in particolare quella del figlioletto rimasto solo a trastullarsi vanamente con un cavalluccio regalatogli dal padre.
Il dramma finirebbe qui, ma in questa versione firmata da Bellini e Tuzzoli c’è ancora spazio per una sorta di appendice o di postludio, in cui i quattro personaggi si rialzano di nuovo in scena, e per bocca del Potere pronunziano una sorta di richiamo o di profezia “all’era atomica”, in cui si evoca il potenziale ritorno di Woyzeck:
ma non nelle sue logore vesti di povero diavolo, bensì in quelle di lupo (da qui la maschera indossata un attimo da Malanchino), sia che voglia rappresentare il dittatore (nazista, ovviamente), oppure un futuro e messianico liberatore.
Büchner di certo non lo sapeva, nessuno di noi lo sa.