Segnatevi questo nome perché è un nuovo rapper che canta in italiano sotto la scuderia Warner Italia e merita di essere ascoltato: Anagogia, al secolo Marco Maniezzi, che ha fatto un disco che si chiama Pillole.
Marco è cresciuto a Cento, in provincia di Ferrara e si è avvicinato al rap quando aveva 13 anni. Ha scoperto di saper scrivere, si è appassionato al freestyle e si è distinto nella seconda edizione di Mtv Spit per questa disciplina. Lo abbiamo incontrato per conoscere meglio il suo passato e le sue ambizioni per il futuro.
Pillole significa che ogni pezzo del disco ha un carattere, un tema…o mi sbaglio?
«In verità ci sto pensando adesso che me lo dici. Ho solo 22 anni ma ho iniziato a scrivere questo disco in un momento molto complicato, ho pensato che tante persone si danno alle pillole per problemi psichiatrici, mentre io posso risolverli con una canzone, o meglio, scrivendo musica. Era uno sfogo per uscire da un momento buio.»
Tu sei un emergente giovane e di tante speranze, non ci sono problemi!
«Invece sì, essere un ventenne in Italia oggi è un problema. Gli stati d’animo che descrivo nelle canzoni sono sempre influenzati da questa paralisi, da quelle porte in faccia, da quell’idea che prima era meglio. Non so, forse la mia resistenza e credere di non voler abbandonare questo Paese.»
Cosa vuoi comunicare con Pillole?
«C’è una traccia per cui ho fatto il video, Quattro! Che è anche il simbolo di quello che voglio, voglio stare fuori dal podio, non voglio per forza partecipare a questa corsa all’oro. Faccio rap e tengo a farmi sentire per quello che dico, voglio incitare a risollevarci. La mia è una missione di pace per questo Paese, credo.»
Da dove arrivi, nel senso artistico dell’espressione?
«Ho vissuto a Cento e mi stava stretto anche prima di avvicinarmi alla musica. Avrei voluto fare l’alberghiero, perché la mia passione è la cucina, ma mi hanno consigliato l’Itis che ho fatto per due anni e dopo non riuscendo a finire la scuola mi sono fatto una specializzazione in elettricista, mestiere che ho pure fatto quando ho iniziato a rappare. Sognavo la grandezza della metropoli, ci sono pure stato per un po’ a Milano ma poi sono tornato a casa dai miei quest’anno, mentre aspettavo che uscisse il disco. Cercavo un modo per far ruotare la mia vita intorno all’arte.»
È un punto di vista molto più vasto del solito voler far rap. Ti senti diverso dagli altri?
«Sono me stesso e se questo comporta fragilità è perché sono cosciente di poter cantare solo quello di cui conosco gli aspetti profondi. Quindi la mia vita è stata finora di alti e bassi e io non mi voglio mascherare dietro canzoni vincenti a tutti i costi. Sono in continua evoluzione, come il tempo e mi piace essere così.»
Cosa detesti di questo lavoro? La cosa che ti ha sorpreso di più ora che lo fai a livello professionale?
«Il fatto che in qualsiasi aspetto l’immagine è anteposta al contenuto. So di non avere problemi con la mia faccia ma mi dispiace per quelli a cui non viene data una chance. Nel mio caso vorrei che i rapper fossero giudicati per quello che cantano non per quanto sono belli. Come i calciatori che vengono presi per le loro doti, poi se hanno una buona faccia tanto meglio.»
Che tipo di live ti appresti a presentare in giro per l’Italia?
«Farò il rap con il dj dietro, mi piace questa formula, mi fa sentire solo, protagonista ma anche spalleggiato, è una bella presentazione per il mio disco. Per le cose in grande invece mi rifaccio a Caparezza, uno che di live se ne intende eccome. Mixa sempre show e sensibilizzazione, non lo ascolto ma come artista lo ammiro molto. Come Stromae, non è il mio genere, ma quando lo vedo sul palco secondo me è un genio.»