Esempio eclatante di quanta bravura e professionalità ancora semi nascosta ci sia in Italia, gli Uscita 17 sono una formazione padrona di sonorità molto interessanti e di idee chiare da voler esprimere. Un rock, il loro, pulito e di piacevolissimo ascolto che facilmente entra nella testa di chi sente e ti lascia in bocca quella voglia di averne ancora, perché quando la musica veicola, sia con gli strumenti che con le parole, un messaggio chiaro e che può far sentire rappresentati una gran fetta di una generazione, diventa un messaggio quasi virale destinato a raggiungere i più. Oggi vogliamo raccontarvi un pezzetto del mondo degli Uscita 17 perché siamo sicuri che non potrete più farne a meno.
Partiamo dal vostro ultimo lavoro, come descrivereste a parole “Solo buone notizie”?
«È il disco che sognavamo di realizzare per fare un salto di qualità. Ne abbiamo sentito la necessità appena abbiamo capito che era arrivato il momento giusto. È una bombatomica, come la copertina.»
Nel titolo del disco mi sembra di leggere una certa ironia ma anche un messaggio di speranza, non essendo il titolo di una traccia, mi vien da chiedere come nasce questo titolo e perché?
«Il titolo “Solo buone notizie” è nato dopo una lunga riflessione perché cercavamo un’affermazione forte che descrivesse in tre parole l’essenza di tutte le canzoni che lo compongono. C’è dentro rabbia, un po’ di disillusione verso la nostra generazione e voglia di reagire condita con speranza nel futuro. Nel suo complesso è un’analisi concreta e non pessimistica di questo nostro mondo attraverso i nostri occhi, non è un giudizio inappellabile. Abbiamo descritto quello che abbiamo visto e sta all’ascoltatore cercare il giusto verso per carpire il tutto, ciò si riflette nella copertina che ha bisogno di essere rovesciata per capirne il senso.»
“Solo buone notizie” è ricco di atmosfere molto disparate pur mantenendo un’impronta rock sempre presente, come nascono le vostre canzoni, quali sono i passi fondamentali del processo creativo?
«Per quel che riguarda questo disco abbiamo composto quasi tutte le canzoni nello stesso lasso di tempo e ciò ha influito per avere un prodotto omogeneo rispetto a Numero Primo, ad esempio. Generalmente partiamo con un’idea di base suonata con la chitarra acustica che può essere stravolta in egual maniera da ognuno di noi; questo perché componiamo tutto insieme, rivediamo e riscriviamo tutto, a volte anche da capo, se la cosa non ci piace. Il lavoro di squadra è la nostra peculiarità, non ci sono leaderismi, siamo più una fabbrica, ecco.»
Il vostro nome, Uscita 17, racconta delle vostre origini. Come nasce?
«Nasce tanti anni fa in onore del quadrante di Roma dove siamo cresciuti e rappresenta ancora oggi la strada che dobbiamo percorrere per andare in sala o per tornare a casa. Ci piace pensare che sia un tributo alle nostre origini, è sicuramente strano, quel numero poi non ha bisogno di descrizioni varie. Però ci piace essere anticonformisti e anti-scaramantici e ce lo siamo tenuti stretto. È un monito per non dimenticare mai da dove siamo partiti.»
La vostra storia è fatta di tanti riconoscimenti live su tanti palchi romani e non solo, cosa credete vi serva per fare il salto definitivo e farvi conoscere alle grandi masse?
«Sì, nel corso degli anni qualche soddisfazione ce la siamo tolta, non per ultima questo disco. Ma come al solito, ci piace pensare che siamo solo all’inizio, che poi è il motivo per cui puntiamo a migliorarci sempre in ogni aspetto. Per questo abbiamo già pianificato, grazie alla nostra etichetta One More Lab, una serie di concerti per quest’estate volti a suonare in contesti di un certo tipo, primo su tutti la partecipazione al Maremoto Festival e un nuovo mini tour che ci porterà in giro per l’Italia, seguito da un nuovo video. Sappiamo che ad ogni concerto abbiamo sempre dato il massimo, per sfruttare queste occasioni volte a poter farci conoscere da un pubblico più vasto e anche diverso. Come all’apertura ai Marlene Kuntz o al Circolo Degli Artisti lo scorso aprile, in cui questo nostro impegno si è tramutato in soddisfazione del pubblico, ma soprattutto nei concerti successivi. La speranza è sempre che la nostra musica arrivi a più orecchie possibile.»
Si sa che l’Italia non è esattamente la patria del rock eppure di gruppi più o meno bravi legati a questo modo musicali ce ne sono tanti, poi però le radio generaliste continuano a trasmettere la così detta musica leggera italiana salvo rare eccezioni, avete una spiegazioni per questo?
«È un discorso di mercato. Prendi l’hip hop e il rap ad esempio. La scena rap in Italia è stata sempre florida ma all’industria musicale non interessava. Eppure Esa con gli Otierre o La Famiglia e, perché no, anche gli Articolo31 esistevano dal ’92. Adesso il rap genera vendite e la TV è piena di ospiti, di piccoli Rocco Hunt. Se ci pensiamo bene, il rock indipendente italiano ha avuto il suo momento che portò poi al grande periodo in cui vennero consacrati Bluvertigo, Subsonica, Negrita, Afterhours e ci mettiamo dentro anche Elio e le storie tese. Eppure in quegli anni il rap non era morto. Tutto ciò ci rende ottimisti perché è una ruota che gira e ad oggi il panorama indipendente è pieno di gruppi che meritano un grande pubblico.»
Oggi la musica è spesso difficilmente inquadrabile in un genere definito, le contaminazioni anche più improbabili sono all’ordine del giorno, quali sono gli strumenti e le sonorità lontane dal rock dalle quali vi sentite più affascinati?
«Premesso che, secondo il nostro punto di vista, le contaminazioni sono la linfa della sperimentazione e dell’evoluzione musicale, molti sono i generi che ci piace ascoltare: il rap (di cui Fede, Ema e Carlo sono appassionati) e altri a cui siamo affezionati come funk, r’n’b e soul. E poi c’è lui, il più grande di tutti: James Brown.»