The Sweet Life Society sono stati i primi a inventarsi l’electro-swing, cioè quel miscuglio di sonorità vintage anni 20 e 30 con una base dance. Gabriele Concas e Matteo Marini hanno portato in giro uno show live per diverso tempo, Swing Circus, che ora è diventato il primo album inciso in 4 anni di attività. The Sweet Life Society non sono assolutamente dei principianti. Partiti da Torino hanno calcato i palchi più prestigiosi d’Europa, suonato a Montreal e New York e i loro dischi escono perfino in Giappone e Corea. Insomma, all’estero ce li invidiano da tempo. Abbiamo incontrato i The Sweet Life Society, questo strano ma intrigante duo creativo per farci spiegare cosa c’è dietro l’accattivante concept dell’album Swing Circus e del singolo My Sound, che unisce già nei featuring due mondi diversi: Le Sorelle Marinetti e La Mattanza.
Come vi siete trovati a fare questo genere inesplorato?
«Siamo stati pionieri, è vero, riprendendo elementi che ora cavalcano anche Giuliano Palma e Simona Molinari in Italia, anche se loro hanno meno contaminazione perché sono forti proprio nel ridare veste nuova a suoni classici. Ma ci piacciono e collaboriamo in varie forme anche con loro. Noi invece mixiamo in libertà, siamo figli di quegli esperimenti di fine anni 90 di Fatboy Slim o il Moby di Play. La musica vintage ci piace perché è piena di spontaneità, è densa di forza espressiva meno codificata.»
Cosa volete portare all’ascolto del grande pubblico?
«Il concetto di partecipazione alla musica che si è perso col tempo. La perfezione formale della tecnologia può togliere molta della magia della musica popolare, pensiamo ad esempio al blues o al jazz che deriva da esperienze di vita vissuta assieme. Non siamo Michael Bublé che rifà i classici swing. Noi vogliamo dargli nuova vita. Quando siamo stati a Glastonbury qualche mese fa abbiamo visto suonare in un palco Fatboy Slim ed è stato emozionante vedere migliaia di persone che cantavano i pezzi campionati come se fossero delle canzoni di un cantautore di oggi.»
Guardate più all’estero che all’Italia?
«CI chiamano di più fuori dal nostro paese, siamo distribuiti con i nostri dischi in Asia e in Europa. Succede perché siamo partiti senza strategie, senza una band vera e solo dopo che ci hanno chiamato a esibirci abbiamo pensato di fare uno show che unisse l’impatto elettronico sol suono live della tromba. Diciamo che la corrente hip hop in Germania o Francia ha reso possibile molta sperimentazione. Noi siamo partiti dai mix perché è quella la nostra base ma in Italia ultimamente è sempre più difficile fare musica con i sample, ci sono dei cavilli e autorizzazioni che bloccano molto.»
Cosa vi sentite oggi?
«Ci siamo conosciuti in questa struttura poli-culturale chiamata Flux dove abbiamo sperimentato molto con musica e arti. Abbandonati i remix siamo diventati produttori partendo dal sampling, arrivando a sviluppare poi le esibizioni con orchestra vera e propria. Abbiamo anche avuto la fortuna di essere partiti dal quartiere San Salvario di Torino dove ci sono sempre dei musicisti che si incontrano, dai Subsonica agli Afrika Unite o i Bluebeaters. Ci si incontrava e si andava in studio per fare cose assieme. Non volevamo essere proprio un collettivo ma ritrovare quell’essenza della musica da comunità come ci si immagina fosse negli anni d’oro New Orleans.»
Un progetto così insolito è distribuito da una grande etichetta come la Warner…
«È vero che la musica indipendente non è in salute nel nostro paese ma abbiamo avuto fortuna nel trovare persone sensibili che hanno pubblicato il disco così come era. Certo, abbiamo fatto delle variazioni ma per esempio, tutti i featuring dell’album non sono stati alterati, perchè erano nati da un incontro umano che li ha resi solidi. Il lasciare esprimere liberamente la fusione di linguaggi di suono è la base del disco. Anche i musicisti che si sono uniti a noi non avevano uno spartito ma solo un piano con bozza di arrangiamenti.»
Come lo avete costruito?
«Ci sono pezzi che hanno 4 anni altri che hanno 4 mesi, non è un percorso unico. La pasta di suono che abbiamo creato riflette i nostri gusti, anche con il lavoro di taglia incolla che abbiamo fatto una volta che il disco era pronto. Lavoriamo sull’immaginario, parliamo molto di cose vintage anche tra di noi, ovviamente, le curiosità della cultura del passato ci derivano dalla nostra formazione umanistica. Crediamo di essere dei caratteri poliedrici, abbiamo studiato fotografia e grafica, due mondi che a loro modo usano elementi di linguaggi diversi e poi li mischiano.»
Guardate alla musica come a un’immagine?
«Il disco è un’unica fotografia di quello che ci è capitato negli ultimi quattro anni. Equalizziamo i colori, sviluppiamo l’immagine, guarda che le analogie con altre espressioni sono tante. Non abbiamo conoscenze di fisica del suono ma la tecnologia oggi ci permette di registrare in modo molto più semplice. Vogliamo creare una belle veste a quello che facciamo ma anche il contenuto deve essere di altro profilo, non si deve perdere di vista il nucleo.»
Cos’è l’aspetto più avvincente di questo mestiere?
«Farsi stupire dalla libertà creativa che fa emergere i caratteri positivi dell’umanità. È una scoperta che rincuora molto, specie per noi che attingiamo ispirazioni da varie epoche. Uniamo pezzi del telegiornale del 1982 e filmati d’annata o personaggi come Armstrong. Rileggere la cultura popolare stupisce, ci sorprende anche l’essere umano, la sua sensibilità che alla fine esce sempre fuori dalla cultura di ogni epoca.»