Ogni nuovo album dei The Gentlemen’s Agreement è un caleidoscopico mondo di suoni. Let me be a child era uno speed country, il secondo Carcarà era più tropicale e il terzo, uscito da pochi mesi, Apocalypse Town, per l’etichetta Subcava Sonora, ha il suono di una fabbrica, un concept album che ha come protagonista un operaio, tra schiavitù e rumori di fabbrica, che pensano anche di portarlo in scena.
La band è composta da Raffaele Giglio (Voce, Chitarra), Antonio Gomez (Basso elettrico, Contrabbasso, Cori), Gibbone (Percussioni, Pedaliere proto-industriale, Rumori, Cori), Mauro Caso (Batteria, Rumori) e Pepo Giroffi (Sax baritono, Sax tenore, Sax soprano, Clarinetto, Flauto traverso).
Attualmente The Gentlemen’s Agreement sono in tour, anche per l’Europa, con il loro furgone, portandosi tutti gli strumenti costruiti per creare la noise miusic, la fabbrica, strumenti da lavoro mischiati con percussioni, trapani e lucidatrici sfregati su campanacci, rullante con frenomacchina, macina bulloni, e, gli strumenti auto-costruiti, psycho sitar, mollofono, etc.
Abbiamo parlato di questo loro nuovo lavoro Apocalypse Town con il frontman della band campana The Gentlemen’s Agreement, Raffaele Giglio.
Che significato date al titolo, Apocalypse Town?
«È un significato molto reale, vissuto sulla nostra pelle. Abbbiamo realizzato questo disco utilizzando la formula del baratto, per produrcelo. Io sono falegname e restauratore, quindi dopo un periodo passato in Salento, ho conosciuto delle persone che mi avevano proposto di realizzare, insieme ad un architetto, una parte di uno studio d’incisione. Ho portato con me due ragazzi del gruppo, per un mese abbiamo lavorato e in cambio abbiamo avuto un mese di registrazione. Nel frattempo ho fatto un altro baratto con il Lanificio 25, una struttura fantastica che sta a Porta Capuana. Per un anno abbiamo gestito il club e in cambio abbiamo vissuto in uno dei loro appartamenti.»
Avete realizzato un disco senza sborsare un euro?
«Apocalypse Town deriva da questa esperienza del baratto, si può vivere, anche per un periodo, se capaci di fare un mestiere facile, semplice, umile, con le mani, e puoi barattartelo. Io sono riuscito a campare un anno e mezzo così, è molto difficile, perché poi si crea un rapporto di empatia, che non è realizzabile con tutti, la cosa tua è anche mia, la mia anche la tua e, con le persone ricche sono un po’ difficili. Con la persona umile lo scambio è semplice. Apocalypse Town è convincere le persone a rifuggire da questi meccanismi per poi non avere nulla, ma coltivare una vita molto più coltivabile, molto più sana.»
È un nuovo modo di sopravvivenza, come sei venuto a conoscenza di questa forma del baratto?
«Ho conosciuto una ragazza nel Salento, con la quale ho avuto una relazione di un anno. In quel periodo ho conosciuto tantisime persone magnifiche, lei si chiamava Katia, e organizzava Cammini Lenti, movimento lento, cioè portava una ventina di artisti in paese e in cambio dava vitto e alloggio. È una cosa attuale, sempre esistita, adesso si sta espandendo, le risorse sono infinite, ma quelle umane no.»
Con questo album avete stravolto la normale registrazione di un album con strumenti costruiti da voi…
«Li abbiamo creati sotto suggerimento di un personaggio, Giuseppe Treccia, un ragazzo di Afragola, che ci ha portato in un mondo di pezzi e componenti elettrici,
che potevano percuotere corde, le quali potevano essere modulate facilmente, ma con un sottofondo di un rumore fastidioso. Da lì abbiamo capito come si poteva fare e abbiamo registrato. Poi a nostra volta abbiamo creato altri strumenti per lo spettacolo dal vivo, hanno contestualizzato molto il disco, dando la giusta componente sonora, per la fabbrica, però con le note.»
Dire… direttore, primo video estratto da questo album, è un j’accuse alla siamo uomini o caporali?
«Il pezzo è nato perché all’interno del Lanificio, dove io lavoravo, nel giro di un anno ho visto quattro direttori passare, ognuno imponeva la propria estetica, il proprio modo, i propri orari. Ma il direttore senza l’operaio non può far niente, infatti, cambiavano i direttori, ma non gli operai.»
Il milione di cosa parla?
«Terza traccia del disco è la fase in cui il protagonista, oppure il lettore, si rende conto che il protagonista è colui che, nonostante faccia un lavoro massacrante come la catena di montaggio, si estranea e immagina di stare in un posto paradisiaco, per fuggire da quel posto, mentre alcune persone non riescono nemmeno ad immaginare come fuggire, perché debbono pagare un mutuo, le rette scolastiche. Per chi ha una famiglia, la fabbrica è l’unico mezzo per soddisfarla. Per chi è single, invece, ha piacere di lavorare per guadagnare semplicemente per farsi una vacanza scema, un iphone, però, ci sono persone che sanno che quella cosa non è sana, e, il protagonista si distacca. Le persone sono ossessivamente convinte che fanno bene i ragazzi che manifestano perché la fabbrica ha chiuso, ma non capiscono che hanno bisogno di quei soldi solo per fare cose inutili. Se si comprendesse che il meccanismo è sbagliato, mentre potrebbero stare nelle terre, per la gran parte abbandonate, per produrre le cose che sono doc e made in italy, potremmo evolverci molto di più, ecco perché bisogna ripopolare le campagne.»
Cosa succede a questo ipotetico operaio descritto nel vostro album, riuscirà a liberarsi da questa schiavitù della fabbrica o ne verrà inghiottito?
«Nel disco, dalla sesta canzone in poi, si raggiunge una consapevolezza, si scopre che altre persone fanno la vita che tu vorresti fare, che hai sempre desiderato, una vita molto semplice. Alla fine di questo disco, ci siamo resi conto che abbiamo preso ad esempio, un nostro caro amico, che abita nel Salento, Giuseppe Pellegrino, laureato alla Bocconi. Giuseppe ha lavorato dieci anni come impiegato in un’azienda, e, dopo un anno di lavoro a Napoli, ha deciso di riprendere le terre del nonno nel Salento, sacrificandosi, perché all’inizio uno deve imparare a fare il contadino. Adesso ha un’azienda agricola enorme, produce di tutto e questa sua esperienza, questa liberazione, nel disco e nella realtà l’abbiamo vista, affrontata e l’abbiamo descritta. Il personaggio si libera, assolutamente sì. Anche le sonorità all’inizio sono molto più cupe.»
Adeus dalle sonorità sudamericane, invece, nel vostro nuovo video molto minimal, solo tu e una chitarra acustica, perché questa scelta?
«Adeus è il prossimo video che faremo entro la fine di giugno, quello che gira sui social, è stato fatto in un capannone a Roma, un piccolo spot per un concerto al Circolo degli Artisti, per un sito che si chiama Upupa, che cerca di portare artisti nel contesto che loro hanno identificato nel disco, nel caso nostro era perfetto il capannone.»
Quanto di politico c’è in questo disco?
«Per me politico è anche dove decidi di comprare la frutta, quella è l’unica politica che posso toccare oggi giorno.»
Hai fatto anche teatro…
«Ho fatto teatro in maniera molto spontanea, l’anno scorso in Galleria Toledo con Alessia Siniscalchi. Lo spettacolo si chiamava Rosso Caffeina, il mio ruolo era un musicista messicano che, insieme a un altro compare, derubavano una persona, uccidendola. Un commedia noir molto bella dove suonavo e recitavo. Con la band, invece, abbiamo fatto un tour con lo spettacolo di Melchionna, Dignità autonome di prostituzione. Mi è piaciuto molto interagire in questo contesto.»
Quindi, ti piacerebbe fare anche teatro?
S«ì, la vita è fatta così, mi esprimo quando posso.»