In scena, al Teatro Mercadante di Napoli, Il Crogiuolo di Arthur Miller nella versione di Masolino D’Amico, con Filippo Dini, Virginia Campolucci, Gloria Carovana, Pierluigi Corallo, Gennaro Di Biase, Andrea Di Casa, Didì Garbaccio Bogin, Paolo Giangrasso, Fatou Malsert, Manuela Mandracchia, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe, Valentina Spaletta Tavella, Caterina Tieghi, Aleph Viola, per la regia di Filippo Dini; una co-produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Teatro Stabile di Bolzano / Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, con il sostegno della Fondazione CRT (repliche fino a dom. 4 dicembre).
Arthur Miller scrive Il Crogiuolo nel 1953 durante il Maccartismo (o anche “caccia alle streghe rosse”): una vera e propria psicosi anticomunista, che si protrasse per tutti gli anni Cinquanta, generando terrore, tradimenti, condanne, morti. Sulla spinta di questo stato di follia collettiva, il drammaturgo sceglie di rappresentare la comica demenza della sua contemporaneità e i suoi tragici esiti attraverso la caccia alle streghe avvenuta a Salem, in Massachusetts nel 1692.
«A Salem – spiega Dini – tutto ebbe inizio dallo strano comportamento di un paio di adolescenti, che forse manifestavano solo la difficoltà di molti loro coetanei a diventare adulti. Fu così che i medici, non trovando ragioni scientifiche ai loro bizzarri atteggiamenti, rimandarono la faccenda alle autorità. Ne conseguì che le ragazze, accusate di essere preda di un maleficio, si videro costrette ad accusare altre persone dello stesso villaggio di averle stregate: 144 persone furono processate e 19 furono giustiziate. Miller scrisse questo dramma durante il Maccartismo, quando lui ed altri artisti e intellettuali furono “presi sotto osservazione” dalla Commissione per le attività antiamericane. L’arma più efficace fu la delazione: chi non faceva dei nomi di altri simpatizzanti comunisti, veniva accusato di oltraggio e avrebbe decretato la fine della propria carriera. Lo scrittore non ne fece nessuno. La trasposizione della sua storia in quella di Salem è, dunque, una metafora della sua vicenda personale. Ho deciso di intraprendere questo viaggio dopo aver visto l’esplodere della pandemia e della guerra in Ucraina perché entrambe, in forme diverse, hanno generato diversi stili di follia e di isteria collettive, sia mentale sia intellettuale, sia ovviamente sociale».
Dopo i successi ottenuti con Ivanov di Cechov, Così è (se vi pare) di Pirandello, Casa di Bambola di Ibsen, Filippo Dini – cui è stato appena conferito al Teatro Nuovo il Premio della Critica 2022 dall’ANCT (Associazione Nazionale Critici Teatrali) – rivolge questa volta la sua attenzione ad un classico del Novecento (seppur poco frequentato in Italia). Che sia un classico lo si capisce bene fin dalla prima scena, quella danza selvaggia di streghe che rimanda alle Baccanti di Euripide e alle Streghe del Macbeth. Come anche le belle scene modulari di Nicolas Bovey, che rimandano ai periatti della tragedia greca. Ma qui il linguaggio non è per nulla aulico, anzi è crudo e prosaico come lo squallore dell’umanità rappresentata. Una piccola comunità agricola ove vige il sospetto, l’invidia, l’avidità (a cominciare dal Pastore Harris, magistralmente interpretato da Andrea Di Casa, cui si contrappone il più umano Reverendo Hale di Fulvio Pepe) che spingono tutti in un vortice di isteria collettiva, in cui la paura e la delazione la fanno da padrone. Così si disgrega il tessuto sociale, il senso di appartenenza e di solidarietà, la cui assenza non fa che rafforzare la violenza del potere costituito, qui incarnato dal perfido Giudice Hathorne di Pierluigi Corallo. Ad opporsi alla sua prepotenza, il povero contadino Proctor (Dini), reo di adulterio, la cui specchiata moglie Elisabeth (Manuela Mandracchia) verrà accusata di stregoneria dalla giovane amante del marito, sua ex cameriera licenziata, Abigail (Virginia Campolucci). Queste sono solo le punte di diamante di un cast ben nutrito e di alto livello, che contribuisce a rendere la visione di Dini coerente e avvincente, emotivamente coinvolgente e di grande impatto. Nonostante alcune scene un po’ troppo urlate, il ritmo risulta sostenuto e la tensione non viene mai meno. Coraggiosa la scelta di innesti musicali, eseguiti dal vivo da Aleph Viola e Fatou Malsert, pienamente in linea col racconto anche se di epoche più recenti, che donano un di più di emozioni. Grande ovazione finale da parte di un pubblico per nulla stanco di tre ore di spettacolo, bensì entusiasta.