I Sonatin for a jazz funeral dovrebbero essere riconosciuti come delle glorie locali. Sono napoletani giovani che si son messi assieme solo un anno fa. Descriverli è difficile quasi come far passare un loro pezzo su un network radiofonico. Si passa dal jazz al funky, dal progressive all’indie. Il loro primo album è addirittura condito di suite strumentali spiazzanti e suoni industrial alla Nin. La voce della band Luigi Impagliazzo, a 25 anni è quello che si dice un piccolo rivoluzionario. Lui non lo dice di se, ma a parlarci è evidente: «Ho iniziato abbastanza tardi ad amare la musica, intorno anni 19 anni, i miei pomeriggi da adolescente li trascorrevo da videogiocatore accanito, leggevo, facevo il secchione a scuola. La radio l’ascoltavo per divertimento non per sentire necessariamente musica».
Poi la svolta, con un piglio da nerd che si informa, studia, e ricerca, che si evince anche da alcuni passaggi molto complessi del disco d’esordio, dove Luigi compone in maggioranza tutto ma coadiuvato dai bravi compagni di viaggio «che mi fanno scoprire sempre cose nuove» dice. Maurizio Milano suona la batteria, Gen Cotena la chitarra e Pierluigi Patitucci il basso, anche se i confini sono molto labili. «Sforiamo nelle competenze altrui, perché spesso anche se siamo giovani e alle prime esperienze ci sono conflitti e dalla mescolanza escono cose positive».
Parliamo dei Sonatin perché sono davvero un esperimento strano, lontano dalla ricerca della celebrità e soprattutto appaiono al momento, unici nel loro universo: «Il rapporto con la musica sempre stato una ricerca, attraverso l’espressione sonora e para-sonora, includo anche il rumore nel nostro sound. Ho riportato gli interessi della mia vita in questo disco, studio lettere, e quindi l’aspetto poetico o ricerca sonora come la musica dei popoli che è l’espressione di un’etnia, è sempre presente. Ma mentre scriviamo i pezzi penso anche all’avanguardia artistica, a quelli che dal 50 in poi hanno avuto nell’arte un approccio pionieristico. Questo primo disco è la nostra prova con la forma canzone che ha strutture cicliche che vanno dai 3 ai 5 minuti. Abbiamo provato da sempre a scarnificare la struttura. Magari i prossimi non saranno così». È difficile definire composizioni come Second Line o Erostratus convenzionali. Le contaminazioni sonore e metriche sono tante, il cantato in inglese, spagnolo e francese avvalora l’impressione. «Magari il prossimo disco sarà in esperanto» scherza il cantante. «Ci interessava adesso il mondo anglosassone. Se riusciremo a trovare strumenti diversi lo faremo, quando abbiamo iniziato a fare musica ci siamo detti: vale la pena dire qualcosa quando c’è qualcosa da dire. Ci sono delle cose che devi dire per forza in altre lingue, risultano più immediate». Mi complimento per la sua pronuncia in inglese ma gli sottolineo che l’inglese è la lingua di tutti: «Per questo è importante che ci sia sempre una propria impronta perché anche nei Velvet Underground Nico aveva un accento teutonico ma era la bellezza di quel lavoro».