Il discusso spettacolo, Magazzino 18, di Simone Cristicchi finalmente arriva a Napoli dal 21 al 26 ottobre al teatro Bellini. Un successo inaspettato che dal 2013 ha portato molta gente a conoscere una parte della nostra dolorosissima storia, evento taciuto, volutamente dimenticato, l’esodo istriano, che si è verificato alla fine della seconda guerra mondiale. Cristicchi, coadiuvato nella scrittura da Jan Bernas e diretto dalla mano esperta di Antonio Calenda, ripercorre alcuni momenti di questo periodo e riparte proprio dal Magazzino 18, deposito situato nel porto di Trieste, in cui diversi italiani sono stati costretti ad abbandonare tutte le masserizie per l’esilio.
Sono già diversi anni che Simone Cristicchi ci abitua, attraverso i suoi scritti, canzoni, libri e testi teatrali, a toccare con mano argomenti delicatissimi e difficili da parlarne, anche se è venuto al successo con una canzone ironica e beffarda, Vorrei cantare come Biagio, ma anche in questo ci vuole talento.
Magazzino 18 riprende una canzone del tuo ultimo album. Com’è nata la canzone e com’è nato lo spettacolo?
«Prima di realizzare Album di famiglia, ho girato l’Italia alla ricerca di storie legate alla Seconda Guerra Mondiale, storie finite in un libro, Mio nonno è morto in guerra, edizione Mondadori, che si è trasformato poi in uno spettacolo teatrale. Tra le storie che ho raccolto in questo libro, c’era anche quella sull’esodo degli Istriani del ’47 e la scoperta di questo luogo misterioso, affascinante e sconosciuto che è il magazzino 18, che si trova a Trieste nel Porto Vecchio, ma non è visitabile, non è aperto al pubblico. In questo luogo sono custoditi gli oggetti che gli esuli istriani, fiumani e dalmati si portavano dietro in questo immenso trasloco dal ‘47 in poi, oggetti di vita quotidiana, dalle sedie alle fotografie, dalle cassapanche alle valigie. Visitando il magazzino, ho pensato di partire proprio dagli oggetti, per raccontare questa tragica pagina di storia che è poco conosciuta ancora oggi in Italia, quella dell’esodo e delle foibe. Inizialmente ho deciso di scriverne una canzone, perché è il mio mestiere principale, poi, successivamente sono stato spinto da alcuni esuli istriani a immaginarne uno spettacolo, metter in piedi un monologo. Inizialmente doveva essere un classico monologo da teatro civile, nel tempo si è arricchito di canzoni inedite scritte per lo spettacolo, che io ho chiamato musical-civile.»
Hai poi intervistato qualche esule, hai conosciuto qualcuno in particolare?
«Ho conosciuto tante persone. L’esodo è stato un evento di massa, che ha coinvolto centinaia di migliaia di italiani, questo è uno dei dati che si conosce di meno, quindi gli esuli si sono andati a spargere per tutta l’Italia, anche in Campania, dove c’erano diversi campi profughi, a Capua, a Gaeta, a Napoli. Questo ha fatto in modo che io, dovunque andassi con lo spettacolo, incontrassi delle persone, e queste testimonianze sono state raccolte in libri e in filmati e, sono entrate a far parte dello spettacolo, dove tutto quello che io racconto è realmente accaduto, c’è poca finzione nello spettacolo.»
Quindi c’è anche molta emozione in questo spettacolo…
«Sì, soprattutto, il senso di un riscatto nei confronti di un popolo che è stato completamente dimenticato, quello degli esuli. È uno spettacolo che ci richiama alla memoria, come sono gli esodi che stanno avvenendo anche in questo momento nel mondo. Popolazioni che fuggono da un clima di guerra, di odio e di fame. Tutto questo capitò anche a noi italiani.»
Questo spettacolo è stato anche contestato, specificamente che cosa ha infastidito?
«Alcuni estremisti di sinistra dicono che lo spettacolo non corrisponde alla realtà. Io mi sono basato su libri di storia, scritti da storici di fama nazionale e su testimonianze di persone che hanno vissuto in quel periodo, stiamo parlando di un fronte storico che la sinistra stessa ha tenuto nascosto per sessant’anni, quindi tira fuori degli scheletri dagli armadi. Dello spettacolo contestano il fatto che io parli male o metta in cattiva luce quella che è stata la lotta di liberazione dal nazifascismo alla lotta partigiana, in realtà, non lo faccio nello spettacolo, non uso termini così netti, parlo semplicemente di chiaroscuri, di zone d’ombra, che ogni fatto storico ha in sé, poi nella zona del confine orientale di Istria e nella zona di Trieste è una zona di confine, dove ciò sono vari popoli che si mescolano, che convivono da secoli, è un storia molto complicata che non si può definire bianca o nera, ci sono anche delle zone grigie, che per gli estremisti non va bene.»
Hai scritto diversi brani di denuncia anche sul sociale, ad esempio Prete. Hai avuto altre ripercussioni su altri tuoi scritti?
«Non mi sono mai posto problemi di censura, non sono mai andato incontro al pubblico, sono stato sempre coerente con quello che potevo fare e l’ho fatto con le canzoni e con gli spettacoli. Ora con gli attacchi ricevuti per Magazzino 18, c’è la polizia che presidia i miei spettacoli, un fatto increscioso, perché non dovrebbe accadere che uno spettacolo teatrale venga presidiato dalle forze dell’ordine. In passato ho avuto degli attriti proprio con la polizia stessa, che oggi mi difende, con una canzone che si chiamava, Genova Brucia, che metteva in luce alcuni fatti avvenuti durante il G8 di Genova. La canzone Prete, a livelli molto più alti, ha influito negativamente con il mio rapporto con la Chiesa cattolica, è una canzone molto vecchia, che scrissi quando ero adolescente, che fu pubblicata su youtube e venne molto strumentalizzata. Oggi non scriverei forse più quelle parole, le direi in un altro modo, questo però non toglie che tuttora a volte delle date dei concerti vengono annullate in maniera misteriosa, per colpa di quella canzone che tra l’altro non canto più nei concerti.»
In Magazzino 18 ci sono anche altri attori…
«È un monologo, sono da solo, però interpreto molti personaggi cambiando abito, cambiando registro vocale. I personaggi principali che recito sono Duilio Persichetti, un archivista che viene spedito dal Ministero degli Interni a redigere l’inventario di queste masserizie, di questi oggetti, è il personaggio più simpatico più ironico dello spettacolo perché incarna l’italiano medio, che non sa nulla di questo argomento che pian piano facendo questo inventario scopre una realtà che non conosceva, appunto quella dell’esodo. L’altro personaggio principale è il narratore della parte storica che si chiama lo Spirito delle Masserizie, un fantasma che vive dentro al magazzino e farà da Cicerone da Virgilio nel raccontare questa storia al pubblico.»
Ci sarà un prossimo disco o sei troppo preso da questo spettacolo?
«Questo spettacolo è stata una sorpresa. Frequentavo il mondo del teatro da circa cinque anni parallelamente alla musica, ma Magazzino 18 mi è scoppiato come una bomba tra le mani, è lo spettacolo che ha avuto più successo, più pubblico, abbiamo avuto circa 35mila paganti l’anno scorso e quest’anno abbiamo circa cento repliche già prefissate, quindi non avrò il tempo per mettermi in uno studio di registrazione a incidere un nuovo disco. Ci sarà comunque modo di poter accumulare dentro di me degli appunti delle sensazioni e scriverle.»
Sei stato illustratore, fumettista addirittura… come mai hai abbandonato? Disegni ancora qualcosa o hai abbandonato del tutto?
«È stato tanti anni fa, ma ho abbandonato del tutto perché ho avuto una sorte di rigetto nei confronti del disegno. Ho disegnato tantissimo, da quando ero bambino fino all’età di sedici anni, per questo che io porto gli occhiali. Ho sforzato talmente la vista che mi si sono calate le diottrie, quindi avendo avuto questo rigetto, poi, ho scoperto la musica grazie a una vecchia chitarra che trovai in soffitta. Da quel momento cominciai a imparare i primi accordi e da lì mi sono innamorato della musica, e le storie che io disegnavo a fumetti, le ho poi trasformate in canzoni.»
Hai prestato servizio per diverso tempo in un centro di igiene mentale, hai visto delle scene raccapriccianti che non hai mai avuto il coraggio di raccontare, visto che oggi girano video con scene assurde, pazienti maltratti, non so se tu hai visto anche qualcosa del genere all’epoca, quindi sei stato omertoso…
«No. All’epoca prestavo servizio come volontario in alcune cliniche in alcune centri di igiene mentale, luoghi molto puliti, asettici, dove la cosa che più risalta e che più ti fa male è il senso di solitudine. Nonostante questi luoghi siano apparentemente perfetti, c’è un senso di grande solitudine e di abbandono di alcuni, non tutti di quelli ricoverati. Molto spesso le cliniche o i centri di igiene mentale sono degli approdi infausti, perché le famiglie non sanno come trattare una malattia così grave, quindi si abbandonano in questi istituti. Nel percorso che ho fatto per realizzare il documentario e il libro Centro d’igiene mentale. Un cantastorie tra i matti, lì ho trovato delle scene abbastanza scandalose, ricoverati buttati per terra in mezzo alle feci, ma tutto questo lo sappiamo vedendo le immagini degli ospedali psichiatrici giudiziari. Questo purtroppo avviene ancora oggi nonostante siano passati trenta anni, dalla legge Basaglia del ‘78 che bisogna denunciare comunque lo Stato di queste persone.»