“Seizeronove" galeoni e galeotti di Adolfo Ferraro
“Seizeronove” galeoni e galeotti di Adolfo Ferraro; la copertina di questo libro, (Homo scrivens editore) con un bel galeone in primo piano, trasporta il lettore verso lidi lontani.
Sogni, mari immensi, libertà. Invece non è così, in poche pagine sono concentrate le esperienze di venti detenuti del carcere di Secondigliano impegnati un laboratorio di lettura e scrittura creativa, “Lupus in Fabula”, tenuto da un gruppo di volontarie e da uno psichiatra.
Non si tratta di detenuti “normali” ma di sex offenders quelli giudicati, appunti, secondo la legge 609 del codice penale: violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, corruzione di minorenne.
Per chi non lo sapesse questi detenuti vivono in carcere isolati da tutti gli altri perché oggetto di possibili ritorsioni da parte degli altri carcerati proprio per i delitti commessi.
Il gruppo affronta la lettura de Il visconte dimezzato di Calvino testo volto a far riflettere sul conflitto interiore dell’uomo, un conflitto tra bene e male. Forse, nessuna opera, poteva essere più giusta per questi uomini.
La rifiutano così come fanno con le loro colpe, si sentono lontani dal racconto, poi però acquistano una consapevolezza diversa, iniziano a lavorare su testi in cui si raccontano, in maniera anonima, ovviamente, e ne viene fuori un’esperienza forte raccolta nella prima parte del volume.
Stralci di storie personali dove a tratti emerge una ingenuità disarmante, storia diverse ma comuni, violenze negate, trasformate in disattenzioni, in accuse ingiuste.
Uno spaccato di vita, sufficiente a riflettere su tante cose.
A cosa serve il carcere se non è un’occasione di rieducazione? Come possono restare in contatto con la realtà certi uomini se sono marchiati a vita?
Uno dei protagonisti, infatti, dice di volere essere considerato detenuto tra i detenuti, così come un altro che sa di essere considerato un mostro, non un individuo che ha commesso uno sbaglio.
Colpisce, come spesso accade, la forza della letteratura, del teatro capaci di scavare a fondo come nessun’altra cosa.
Ferraro non è nuovo a questo tipo di esperienze, ne conduce tante da una vita, e vorrebbe che questa esperienza non rimanesse isolata.
“Seizeronove” galeoni e galeotti di Adolfo Ferraro si conclude con un’appendice ricca di esperienze del gruppo di lavoro che ha condotto questo lavoro, tutti coinvolti, ovviamente, anche emotivamente, quel tanto che basta per restare “sani” ma anche per riflettere su tante cose che non vanno nella giustizia.
Ci sarà un mare diverso per questi venti galeotti?
Il galeone è quella imbarcazione che serve per intraprendere viaggi lunghi, ma è anche il tipo di costruzione che i carcerati realizzano con gli stuzzicadenti, forse per potere continuare a sognare o semplicemente a vivere.
Credo nella forza dell’arte in aiuto di tutti quelli che vogliono uscire da strade complicate, ma è un materiale pericoloso, da maneggiare con cura e Ferraro lo sa fare molto bene.
Pagine piene di verità in “Seizeronove” galeoni e galeotti di Adolfo Ferraro che, a tratti, fanno rabbia.
Questi uomini hanno sbagliato, forse qualcuno è stato giudicato male e paga colpe che non ha, ma come possono riabilitarsi se vivono oltre i confini della realtà in un carcere nel carcere? Ben vengano questi esperimenti e libri come questi.
Intervista ad Adolfo Ferraro
Come è stato svolto il lavoro in carcere?
Venti detenuti responsabili di reati sessuali ristretti presso il carcere di Napoli Secondigliano hanno spontaneamente scelto di partecipare al laboratorio
“Lupus in fabula” che prevedeva un incontro a settimana tra loro e un gruppo di operatrici volontarie condotto da uno psichiatra, finalizzato alla lettura e alla personale rilettura de “Il visconte dimezzato” di Italo Calvino.
Lo scopo era quello, consapevolmente accettato dai partecipanti, di una acquisizione di consapevolezze in relazione al reato che aveva prodotto la loro condanna.
La personale rilettura del testo, con il loro Visconte questa volta dimezzato non più in senso verticale ma orizzontale con un taglio all’altezza dell’ombelico,
ha sviluppato nel gruppo che aveva proposto questa visione la scissione profonda che si cela dietro gli atteggiamenti giustificanti e deresponsabilizzanti di ognuno.
Attraverso i meccanismi dello psicodramma e della scrittura creativa il gruppo si è immedesimato in una storia che li ha visti partecipi delle vicende del racconto,
avvicinandosi sempre di più all’emersione del senso di colpa (generalmente respinto) e del rapporto con le vittime, non più viste semplicemente come le artefici della loro detenzione,
ma come persone con cui confrontarsi e davanti alle quali assumere le personali responsabilità.
Il cambiamento nel gruppo dei carcerati è stato graduale ma evidente o ha riguardato solo alcuni di loro ?
L’evoluzione del progetto ha prodotto consapevolezze graduali ma costanti che ognuno dei detenuti ha elaborato secondo il proprio modello culturale, il proprio “sentire” e i personali meccanismi di difesa.
Non si aveva naturalmente l’idea di potere intervenire su tutti gli elementi del gruppo, ma si è osservato che dei venti partecipanti solo due non hanno portato a termine l’esperienza di otto mesi
(uno perché trasferito in altro carcere ed uno perché rimesso in libertà) e la costanza della partecipazione è stato un elemento non usuale nelle terapie riabilitative in carcere.
Altro elemento indicativo è apparso al momento della rilettura collettiva di quanto era stato elaborato, per avere l’autorizzazione dei detenuti alla pubblicazione:
ci sono stati alcuni detenuti che hanno vissuto la cosa con leggerezza e quasi con orgoglio, e su questi l’esperienza non ha probabilmente prodotto grandi risultati e cambiamenti.
C’ è stato però un discreto numero di partecipanti che ha vissuto la rilettura con imbarazzo, qualcuno temendo (nonostante l’anonimato nel testo) di essersi sbilanciato un po’ troppo, qualcuno vergognandosi di quello che aveva raccontato, qualcun altro riproponendosi di rileggere meglio il testo di Calvino.
Su questi molto probabilmente il meccanismo della consapevolezza ha smosso difese deresponsabilizzanti e prodotto un cambiamento che potrebbe essere seguito e valutato anche successivamente alla loro scarcerazione.
Nel gruppo di lavoro c’erano delle donne. Come si sono rapportati i detenuti con loro?
La correttezza nei confronti delle operatrici è stato un elemento costante.
E del resto uno dei motivi principali che hanno spinto i detenuti a partecipare era proprio la loro volontà di dimostrare la personale inoffensività nei confronti delle donne e quindi dare una buona immagine di sé in previsione di possibili vantaggi.
Il rapporto dei detenuti con il femminile è invece emerso attraverso i personaggi del racconto, dalla pastorella Pamela vista inizialmente come una che “sa il fatto suo”, alla balia che ha in quasi tutti risvegliato ricordi materni.
Come definisce il suo “Seizeronove” galeoni e galeotti ?
E’ difficile una definizione di Seizeronove, in quanto non è un romanzo, non è un saggio, non è neanche un lavoro scientifico in senso stretto.
Si potrebbe dire che è il diario di un viaggio che offre nuovi occhi per comprendere – senza giustificare – personalità abnormi che spesso definiamo mostri.
La loro umanizzazione offre la possibilità di una conoscenza che diventa obiettività, diventa capire, diventa difesa e forse anche prevenzione.