Ci vuole coraggio e determinazione per scegliere di sopravvivere alla morte ma un gruppo di persone residenti nelle zone circostanti Černobyl’ hanno scelto di sfidare tutto e tutti per non lasciare le loro terre, le loro vite. Il regista Fabrizio Bancale decide di raccontare nel suo film documentario “Samosely i residenti illegali di Černobyl” la vita, la forza, il coraggio di quegli uomini abbandonati eppure strenuamente vivi. Dopo l’esplosione del reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl, circa 1500 tra uomini e donne si oppongono all’evacuazione imposta dalle autorità sovietiche: rivendicano il diritto di vivere e di morire nelle loro abitazioni. Sfidando il freddo, le radiazioni e la solitudine, contro tutto e tutti, a distanza di trent’anni alcuni di loro sono ancora qui. Sono i Samosely, i sopravvissuti di Chernobyl.
Come è nata l’idea?
Due anni fa un giovane produttore milanese, Massimo Staiti, mi propone di andare a girare un documentario a Chernobyl, in occasione dei trent’anni dalla tragedia. Io ero piuttosto perplesso: l’ennesimo lavoro già fatto da tanti e con ben altre attrezzature ma lui ha insistito perchè andassi a Milano a vedere le fotografie che aveva scattato un fotografo suo amico, Giancarlo Pagliara. Tra i tanti scatti che raccontavano di una terra abbandonata e sofferente, alcuni primi piani di vecchietti. Mi sono subito incuriosito e gli ho chiesto chi fossero: i Samosely, i residenti illegali di Chernobyl, uomini e donne che si erano opposti all’evacuazione forzata decisa dalle autorità sovietiche subito dopo l’esplosione del reattore. Gente che, contro tutto e tutti, avevano deciso di restare (e morire) nelle loro terre, dove avevano sempre vissuto. Dei folli, degli eroi, dei nostalgici. Ho subito detto che, se avessi avuto la possibilità di incontrare quei vecchietti, sarei partito immediatamente per Chernobyl. Ma solo per raccontare le loro storie, la loro esistenza, la loro decisione e determinazione. Niente storia, né spiegazioni scientifiche, solo le
Come hai potuto realizzare burocraticamente un lavoro simile in una zona off limits?
Grazie all’indispensabile sostegno di Pavlina Dumanska (poi nostra interprete), una ragazza di Kiev, con conoscenze nelle sfere dell’esercito ucraino; lei che ci ha procurato un pass speciale per poter girare per una settimana a Chernobyl purchè non entrassimo in alcune zone, dove noi chiaramente siamo andati! Tanto che, ad un certo punto, eravamo addirittura “ricercati” dai servizi segreti ucraini. L’obiettivo era ambizioso: girare un lavoro di un’ora, in meno di una settimana. Ma valeva la pena provarci.
Che tipo di accoglienza hai trovato da queste persone?
I Samosely ci hanno accolto con grande affetto e curiosità: hanno voluto cucinare per noi, portarci in giro, raccontarci anche le loro storie private. Sono stati abbandonati da tutti e hanno visto in noi una luce di interesse sulle loro esistenze mai rassegnate perchè sono fieri della loro scelta. Hanno vissuto trent’anni nel totale isolamento, ma senza mai abbandonare le loro abitudini, la loro terra, il loro fiume. E non si considerano più soli degli altri, di quelli che sono stati evacuati, costretti a vivere lontani, con famiglie spesso smembrate, dove erano sempre indicati come “gli untori di Chernobyl”, e dunque allontanati, ostracizzati… e, secondo loro, “uccisi”.
Non hai avuto paura di andare lì?
Io non ho mai avuto paura di andare lì. Un po’ perché ero stato tranquillizzato da alcuni ingegneri nucleari che in quelle zone erano stati a più riprese per lavoro. E poi oggi a Chernobyl ci sono migliaia di operai, ingegneri che lavorano al “sarcofago”, la copertura del reattore esploso. Con un’ampia turnazione, ma sempre sotto controllo medico. Per cui mi sono divertito quando ho incontrato un pullman di turisti che scendevano per scattare fotografie, mentre un altoparlante li invitava a risalire velocemente per evitare contaminazioni: una sorta di terrore folkloristico.
I Samosely sono tuttora considerati illegali? e quando moriranno cosa succederà?
In un primo momento, tra i Samosely e le autorità sovietiche c’è stato un vero e proprio braccio di ferro: i militari li cacciavano, e loro rientravano. I militari chiudevano le loro abitazioni con assi di legno e sigilli, e loro, di notte, di nascosto, li toglievano per impossessarsi di nuovo dei loro pochi beni. Dinanzi a tanta ostinazione, anche le autorità sovietiche si sono dovute arrendere e accettare la loro esistenza in quelle zone. Tanto sarebbe durata poco, al massimo sei mesi (questa era l’ipotesi di sopravvivenza che era stata loro prevista). Mai avrebbero immaginato che, a distanza di trent’anni, alcuni di loro fossero ancora lì, con il loro orticello, le loro galline e una natura rinata, capace di sfamarli e nutrirli ma sono vecchi, sempre di meno, e tra qualche anno non rimarrà traccia della loro esistenza. Non ci saranno più testimoni di quella che è stata definita la più grande tragedia nucleare della storia.
Cosa resterà di Chernobyl dopo di loro? Chissà. Forse un grande museo, come è successo per i lager tedeschi.
Il film è stato premiato al Social World Film Festival come miglior documentario.
Tante le cose che rendono questo lavoro una bella opera: il soggetto perchè spesso si decide di raccontare degli “ultimi” ma lo si fa con un occhio pietistico, qui invece si racconta la storia della loro esistenza, si vuole portare alla luce qualcosa che tutti avrebbero voluto nascondere. I protagonisti: con la loro forza “superiore” trasmettono allo spettatore una forza vitale incredibile, ti coinvolgono con le loro rughe che sembrano semplici abbellimenti messi su una superficie granitica. Le scelte registiche: il regista li osserva, li fa conoscere, gli regala lo spazio, una finestra sul mondo. Li racconta nel loro “straordinario quotidiano” che diventa avvolgente a tal punto da volere che il racconto non finisca.
Un film forte, reale, concreto caratterizzato dalla forza di quelli che hanno scelto di sopravvivere alla morte.