Roberto Del Gaudio: la sintesi dell’artista perfetto. Regista, attore, cofondatore dei Virtuosi di San Martino, scrittore. Lo abbiamo apprezzato nel film “L’equilibrio” di Vincenzo Marra, dove interpreta don Antonio.
Del Gaudio che tipo di esperienza è stata quella con Marra per “L’equilibrio”?
«Dal punto di vista professionale, una esperienza intensa e accattivante: Marra è un regista che ha le idee chiare, dunque essendo impegnato come attore mi son potuto giovare di un clima di lavoro perfetto. Riguardo ai temi affrontati dal film, ebbene è stata una esperienza toccante, profonda. Mettersi in gioco fra nostri concittadini che vivono in quartieri colpevolmente abbandonati al degrado, dallo Stato in primis, è molto doloroso, ma pure procura una dose di indignazione incoercibile. Sono felicissimo di avervi partecipato».
Da anni con i Virtuosi di San Martino propone un tipo di teatro molto apprezzato, ce ne parla?
«Da oltre vent’anni i Virtuosi di San Martino rappresentano una realtà consolidata e propositiva del panorama teatrale italiano. Abbiamo scritto e messo in scena moltissimi titoli originali, propugnando la necessità di riformulare il teatro musicale, abbandonato purtroppo, nei nostri cartelloni, soltanto alla forma americanoide del musical. Il nostro teatro di tradizione è invece ricco di esperienze alle quali con i Virtuosi ho sempre guardato, da Pergolesi e Viviani, passando per Petrolini e Brecht-Weill. Inoltre per noi la comicità ha e deve avere un fondamento tragico, come tradizione insegna. Insomma il teatro, nell’esperienza dei Virtuosi, non è rivolto all’intrattenimento ebete, ma al gioco vivo e intelligente di chi non vuole cedere al diabete generale della nostra grigia epoca».
Dalla sua penna nascono i testi dei Virtuosi e quest’anno sarete impegnati al Nest e al Trianon con “Totò che tragedia”, conoscendola credo che sia un semplice omaggio al re della risata…
«Mi sono posto di fronte ad una evidenza: o si é Totò, o non si è Totò. E io non lo nacqui, evidentemente. Dunque “rifare” Totò mi pareva un sacrilegio, una impresa impossibile, perciò ho spostato i termini del racconto scenico sul personaggio il Principe Antonio De Curtis, e sulla sua tragica vicenda amorosa con la soubrette Liliana Castagnola. Si narra di un De Curtis profondamente addolorato, incaricato dal suo impresario Jovinelli di mettere su una rivista comica “alla Totò”, appunto, con Petrolini, Anna Magnani, Fabrizi, Sordi, Peppino De Filippo, Eduardo. Eppure stavolta De Curtis vorrebbe dedicarsi a un testo tragico, malgrado Totò sia “condannato” a far ridere. Ciò in linea con quanto andavo dicendo poco fa sul rapporto tra comicità e tragedia».
La sua capacità linguistica trova casa anche nei suoi libri; penso alla sua ultima creazione “Bar dell’Opera e le altre storie”, un’immersione nelle pieghe del racconto di storie, base fondamentale di una buona scrittura. Ci parla del libro?
«Il libro nasce dalla personale osservazione di situazioni e personaggi che incontro nella mia città, ovviamente riformulati al fine della narrazione che di volta in volta mi sono proposto. Una sorta di Napolitaners vagamente joyciani. Pensavo da tempo alla necessità di recuperare al libro una sua vocazione di sfida letteraria intrinseca, elemento un po’ troppo trascurato da molti attuali scrittori, davvero troppo ancorati al genere e allo scaffale. Mi sono divertito ad intervenire in punta di piedi nella letteratura intesa come linguaggio artistico, e ho dedicato gli otto racconti del libro ad altrettanti scrittori che mi hanno appassionato da ragazzo, tra i quali Landolfi, Pizzuto, Campana, Elsa Morante,e altri ancora. Ai miei ventiquattro lettori il gioco di cogliere le fonti ispiranti. E ad essi pure il divertimento, spero, di ritrovare la scrittura, la forma come centro della narrazione, e non il contrario, finalmente!».
Cosa manca per realizzare una programmazione artistica varia e di qualità in città?
«Cosa manca ad una città che possiede il centro storico tra i più antichi del mondo ed il lungomare più incantevole e che è ridotta ad un enorme ristorante kitsch per turisti cafoni? Cosa manca ad una città con la tradizione musicale e teatrale tra le più importanti dell’occidente (si pensi al San Carlo) ferma al palo? Cosa manca a una città a pochi passi da Pompei, da Paestum, una città con il Museo Archeologico che ha, e con le sue pinacoteche, e che investe in patatine fritte e in alberi di Natale per negozi di cianfrusaglie? Forse manca la Visione che riconduca la città ai suoi fasti di capitale culturale europea, manca l’idea o la capacità di attrarre il turismo di qualità, manca cioè la capacità di riconoscere il Sapere a scapito del reazionario divertimento da spritz-movida demente generalizzata».
Si parla sempre di una cattiva gestione ed amministrazione dei fondi pubblici, ma lei pensa che tutte le compagnie meritino aiuti per la loro attività?
«Innanzitutto bisognerebbe chiedersi se le ultime classi dirigenti, politiche ed economiche, meritino così tanti “aiuti” come da noi stanno ottenendo da decenni. Quanto ci costano codesti dirigenti, e a fronte di quali risultati? Quanto ci costano i ricchi, gli imprenditori, gli investitori, le armi da guerra, le banche? Quanto ci costano quelle signore così ineleganti che camminano con i panfili? In secondo luogo credo che la democrazia, così tanto impropriamente sbandierata come fondamento della nostra esistenza civile, debba consistere invece in una democratica gestione dei fondi disponibili per ospedali, scuole, ricerca, cultura e quant’altro. Dunque a chi richiede fondi per progetti che non afferiscano allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo o sull’ambiente, bisognerebbe rispondere positivamente in nome della trasparenza della gestione del denaro pubblico e del principio che recita “a ciascuno secondo le sue necessità, da ciascuno secondo le sue possibilità”. Ovviamente da qui a dire che tutti sono artisti e che tutti i progetti siano geniali ce ne corre, ovvio. Però preferisco un gruppo teatrale seppur cialtrone finanziato che apra uno spazio in città, oppure una scuola pubblica che investa davvero nell’educazione musicale e nella formazione di orchestre giovanili, che una accolita di banchieri speculatori e cinici, o di costruttori che devastino ancora di più il territorio. I fondi pubblici non devono produrre risultati di vendita nel mercato dei privati, bensì devono mirare alla formazione di cittadini. Ciò che peraltro infastidirebbe questa terribile Europa orwelliana».
Lei si dedica molto anche alla formazione dei giovani, come si rapporta con i “nativi digitali” così legati alle nuove tecnologie e poco ancorati alla realtà?
«Credo che la mia generazione, innanzitutto, sia stata la prima a smarrire il suo ancoraggio alla realtà, avendo passivamente aderito ai progetti di “televisizzazione” berlusconiana, avendo abiurato alle ideologie a vantaggio di un quieto vivere piccolo borghese scaltro ma mortifero, avendo rinunciato al progetto di rifondazione della realtà stessa e di cambiamento del mondo. Ci siamo fatti passare addosso di tutto, interramento dei rifiuti tossici, devastazione ambientale globale, fine del Walfare, abolizione dell’art. 18, distruzione della sanità pubblica, devastazione delle scuole delle università. Abbiamo poi accettato il progetto di Steve Jobs di farci sorvegliare (pagando!) da servizi segreti di mezzo mondo attraverso i nostri dispositivi elettronici, facendo del loro inventore una specie di guru. Con i giovani dunque mi rapporto con un enorme senso di colpa, qualcosa non ha funzionato nella trasmissione del sapere dai nostri padri a loro, e la colpa è nostra. I giovani hanno soltanto la colpa di non riconoscere che la movida ubriaca è come un enorme campo di concentramento, prima dell’avviamento ai forni crematori dell’emigrazione. Non si ribellano. Sono imbelli».
Cosa manca ancora nel suo cammino artistico?
«Qualcuno ricordava: “L’arte è tanto grande, ma la vita è così breve!”».