S’intitola Roba Commerciale ed è il primo album del duo pordenonese Klan Destiny, formato dal rap singer Luther e dal dj producer, nonché seconda voce, Lava Elle. Anticipato dal video del singolo Non ti chiamo, Roba Commerciale diffonde un concept di fusione di pop, rap ed elettronica.
“Da un genere che possiamo definire nuovo sul mercato musicale italiano, abbiamo cercato di dar vita ad un prodotto commerciale che potesse arrivare alle orecchie di tutti” così come dichiarato dai due componenti. Cinque tracce che si muovono in un contenuto eterogeneo, spaziando dall’autoironia alla riflessione romantica. Uno scenario musicale quello in circolo con i Klan Destiny in cui viene sancito un percorso di libertà di spirito e di pensiero. Noi siamo entrati nel vivo di Roba Commerciale con una piacevole chiacchierata.
Un concept libero quello di Roba Commerciale. Come è nata la vostra ispirazione all’ep?
«Alla base di questo nostro primo lavoro ufficiale, c’era la voglia di creare qualcosa di innovativo, inedito, mai sentito, ma al tempo stesso commerciabile, ascoltabile da persone di diverse età ed estrazioni sociali. Fin da subito è stata sempre viva la voglia di sperimentare generi diversi. Non creare uno stile e fare sempre e solo quello, ma piuttosto fondere tutte le nostre conoscenze e il background artistico, per provare alcune variabili. Diversi flow (modi di rappare/cantare), diversi sound all’interno delle produzioni, diverse tematiche con diversi approcci e tecniche di composizione. Siamo partiti con un foglio bianco, non sapevamo precisamente che musica sarebbe venuta fuori alla fine, ma sapevamo che alla base di essa, ci doveva essere innovazione e sperimentazione. Lo scopo finale era, ed è tutt’ora, quello di inserirci nel mercato musicale con la nostra proposta. Come detto, rendendo commerciabile ciò che ancora è sconosciuto, o poco valorizzato/suonato».
Sullo stesso filo appare chiara la spinta a non sentirvi vincolati a nessuna etichetta discografica.
«Non è che non vogliamo sentirci legati a nessuna etichetta, non vogliamo sentirci legati a nessuna di quelle con cui abbiamo avuto a che fare fino ad ora. Alcune di esse hanno provato a cambiarci. Non vogliamo fare gli anarchici o quelli in controtendenza e dire: “Questo è quello che facciamo, vi deve piacere, punto e basta”, assolutamente no. Siamo disponibili al confronto, ci mettiamo sempre in dubbio e pur lavorando e facendo uscire molti prodotti, prima che qualcosa ci soddisfi al 100%, passa molto tempo, lavoro e sudore. Tuttavia crediamo che, almeno a grandi linee, se qualche etichetta ci contatta e vuole lavorare con noi, le debba piacere il nostro prodotto. Poi qualcosa può non essere di gradimento, risultare ingenuo e poco curato (lungi dal sentirsi artisti arrivati) e quindi ci si lavora su, per trovare alternative e risultati migliori, come già ci è capitato. Ma quando ci dicono di suonare un genere opposto al nostro, che non scriveremo più i testi e non comporremo più le produzioni e avremo rispettivamente ghost writers e ghost producers allora lì iniziamo a storcere il naso. Sappiamo che queste cose accadono anche a realtà molto più mainstream della nostra, ma non vogliamo farne parte. Se ci scegliete è perché vi piace quello che facciamo noi. Se un domani ci sarà qualche etichetta con cui potremo lavorare bene con rispetto reciproco, ben venga, ne saremmo felici ed onorati. Non siamo contro le etichette, siamo contro quelle che abbiamo incontrato lungo il nostro cammino».
Un lavoro discografico ironico in cui incontriamo un contenuto sociale. C’è una matrice autobiografica?
«Certamente. In ogni brano dell’ep c’è un pezzo di noi. Dal sound delle produzioni che spesso rispecchia i nostri stati d’animo e ciò che vogliamo far capire, a chi ci ascolta tramite determinati effetti o melodie (malinconiche, piuttosto che aggressive), alle liriche all’interno delle quali mettiamo sempre qualcosa che ci riguarda, ovviamente. Nulla di ciò che scriviamo viene scritto a caso, in ogni barra viene raccontata la nostra storia, la nostra visione delle cose, ciò che ci aspettiamo, ciò che abbiamo perso, ciò per cui lottiamo. Questo accade anche quando c’è di mezzo l’ironia. Essa rispecchia la nostra personalità: siamo persone che ironizzano su se stesse, anche durante i live, non ci piace l’autocelebrazione, almeno non quella ingiustificata come fanno molti. Preferiamo farci, e far fare, una risata. Questo anche per quanto riguarda le difficoltà alle quali siamo sottoposti quasi ogni giorno. Non prendiamo sottogamba le questioni, e nemmeno che non ci spaventino o che non ci facciano andare spesso in paranoia le scelte che dobbiamo fare, ma ci sforziamo di essere sempre positivi e ciò ci permette di mantenere l’obiettività, la lucidità e di allontanare la superbia riguardo al nostro lavoro, pur essendone molto fieri, che sia chiaro. Anche in fase di produzione, quando siamo in studio, lavoriamo sodo e prendiamo le cose molto seriamente perché sappiamo che un passo falso può voler dire buttare tutto, ma al tempo stesso cerchiamo di farlo con serenità, altrimenti non riusciremmo a produrre così come stiamo procedendo. Sarà pur scontato da dire, ma l’equilibrio è alla base di tutto».
Una riuscitissima fusione tra elettronica e pop espressa in cinque brani. Una proposta innovativa a cui però si dà un titolo che echeggia tutt’altro. Una scelta provocatoria?
«In realtà è una fusione tra rap ed elettronica, anche se in fondo è vero, molto di ciò che facciamo racchiude in sé diverse sfumature pop. Più che essere provocatoria, con il nostro prodotto vogliamo far riflettere sul significato di musica commerciale. Se una cosa è innovativa, non vuol dire che non sia commerciale. Spesso si tende a collocare nel modo sbagliato la terminologia musicale. Attualmente se ti dicono “Fai musica commerciale” significa che in qualche modo fai “musica da venduti” (che poi cosa vuol dire?), solo per un rientro economico. Quindi vieni criticato da tutti, ma al tempo stesso ascoltato, perché non sarebbe “commerciale” se non venisse approcciata da molte persone. La musica commerciale è quella in testa al commercio, appunto (che vende, in poche parole), non necessariamente quella che fa schifo, o quella senza valore. Purtroppo la sindrome dell’artista che vende è la seguente: finché non lo fa viene elogiato, quando inizia per poi finire in tv e suonare in giro allora no, non va bene, ti sei venduto al sistema, hai tradito il tuo background e il tuo essere underground. Non siamo d’accordo. Se fai buona musica, fai buona musica, punto. Ed essere commerciali vuol dire appunto vendere, non essere dei venduti. Sennò i Queen, con milioni e ancora milioni di dischi, che hanno fatto? Possono non piacere, ma non si può dire questo, la loro qualità musicale è sempre stata la stessa, hanno sempre fatto ciò che più preferivano. Il fatto che avessero una certa risonanza è stata una conseguenza e anche un aiuto per il loro conservarsi nel tempo. È un esempio per riassumere la nostra visione. Facciamo ciò che ci piace e cerchiamo di farlo piacere anche agli altri, quindi se effettivamente raggiungeremo mai i livelli dei Queen (obiettivo giusto un po’ impegnativo, eh?) vorrà dire che avremo commercializzato la nostra musica. Un concetto ben lontano dal “vendersi” e più vicino all’essere riusciti ad arrivare al grande pubblico, che ha apprezzato».