In scena, al Teatro Mercadante di Napoli, Padri e Figli dal romanzo Ivan Turgenev, adattato da Fausto Malcovati e Fausto Russo Alesi che ne firma anche la regia, con Daria Pascal Attolini, Marial Bajma Riva, Giulia Bartolini, Alfredo Calicchio, Luca Carbone, Matteo Cecchi, Eletta Del Castillo, Cosimo Frascella, Stefano Guerrieri, Marta Mungo, Marina Occhionero, Luca Tanganelli, Zoe Zolferino ed Esmeralda Sella al pianoforte; una co-produzione Teatro di Napoli-Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione in collaborazione con Teatro Verdi Pordenone (spettacolo diviso in due parti, prima parte in scena il 22, 23 e 26 marzo, seconda parte il 24, 25 e 27 marzo).
Pubblicato nel 1862, alla vigilia dell’abolizione della servitù della gleba finalmente anche in Russia, Padri e Figli è uno dei capisaldi della letteratura mondiale, che tuttavia all’epoca non piacque né ai lettori giovani né a quelli più anziani. In esso Turgenev mette in scena molto più che il solito conflitto generazionale, un vero e proprio scontro tra due sistemi di valori, uno che guarda al passato, incarnato dai genitori, benestanti esponenti di quell’aristocrazia terriera decadente che presto sarà spazzata via dalla Storia dalla riforma agraria; l’altro, incarnato dai figli sedotti da idee nichilistiche e anarchiche, che lo rifiuta ma che tuttavia non riesce ad intravedere un futuro chiaro e alternativo. Due ragazzi, Arkadij e Bazarov, appena usciti dall’Università, cercano la loro strada. Non sanno, in realtà, dove andare. Una cosa è certa: la società in cui vivono è un disastro, va rifiutata. Ai padri rinfacciano di averla costruita male, di aver imposto modelli di vita inaccettabili, obsoleti, superati. E li contestano furiosamente, categoricamente. È il loro primo passo. Ma poi? “Contestare non basta” ci dice il prof. Malcovati, che ha curato la traduzione e l’adattamento del romanzo. «Al di là delle parole, bisogna avere un progetto, un piano, una prospettiva. Bisogna andare da qualche parte. Se no, rischiano di essere parole al vento. Via i vecchi valori? Benissimo, ma quali sono i nuovi? Ne sappiamo qualche cosa noi oggi: il ’68 ci ha liberato, ma siamo sicuri? E oggi possiamo chiederci, da che cosa? Turgenev non è mai ideologico: anche in questo modernissimo. L’ideologia da sola porta in un vicolo cieco. La vita stessa è fatta non di parole ma di esperienze concrete, di sentimenti che hanno una loro forza autonoma: Bazarov, imbevuto di nichilismo, non ha tenuto conto che quelli non si possono negare. Lo capisce bene l’Odincova: l’amore che Bazarov le offre è invasivo, prepotente, possessivo, non rassicura, destabilizza, devasta. E, nella sua saggezza di donna che conosce la vita, lo rifiuta, sceglie la tranquillità, sceglie quelle che lei chiama “le rotaie”. Lo stesso, in fondo, fa Arkadij, dopo la breve temperie nichilista: sceglie l’amore sereno, concreto, costruttivo per Katia. E rientra nella struttura famigliare che aveva così duramente contestato diventando, come il padre, un buon possidente. Come ha fatto la stragrande maggioranza dei sessantottini, oggi padri di famiglia con un solido impiego».
Il pluripremiato attore palermitano Fausto Russo Alesi approda alla regia con quello che si può definire più uno studio approfondito sull’opera di Turgenev che uno spettacolo vero e proprio. Lo dimostra la quasi totale assenza di scenografie, costumi, quinte e fondali. Solo pochi elementi scenici e piazzati luce ad indicare il contesto delle scene (giorno/notte, interni/esterni). La nutrita compagnia di giovani attori/attrici che egli guida ha, del resto, affrontato un lungo percorso laboratoriale per giungere alla performance, lunga, articolata, complessa (due parti di due ore e un quarto ciascuna senza intervallo). L’impostazione a metà tra il narrato e l’agito funziona e le due componenti si amalgamano perfettamente. Forse avremmo voluto vedere qualcosa che si avvicinasse più ad una forma spettacolare, senza copioni in mano (che del resto servono più a dare sicurezza agli interpreti, dal momento che non vengono mai consultati, tranne che dalla narratrice). L’impressione che se ne ricava è, appunto, più di un work in progress, che comunque non risparmia momenti di vera tensione drammatica. Un lavoro lucido e intellettuale, fluido, che racconta e fa riflettere, ma concede poco all’emozione. In questo, sembra si segua il pensiero del protagonista Bazarov, quando dice “Per me non c’è spazio per le emozioni. Solo sensazioni”.