“Una casa è come una mandibola che si chiude e protegge dal rischio che ti morda, che ti mangi”: questa è sola una delle frasi del libro “Mandibola” di Monica Ojeda (Polidoro Editore) ma bene rende il senso di tutto il thriller psicologico ideato dalla scrittrice sudamericana in testa alle classifiche spagnole. La perversione, la distorsione della realtà, i rapporti falsati, nascono in famiglia per svariati motivi e generano ragazzini ed adulti disturbati, incapaci di seguire le logiche del bene in favore di strade infarcite di visioni, disturbi, desideri.
Fernanda si ritrova incatenata in una casa e la sua aguzzina è Clara la sua maestra della scuola privata per ragazze che frequenta così comincia la storia ma andando avanti si fa tutto più complicato svelando il mondo di Fernanda e Annelise costellata da stranezze, di amore per il lato macabro delle cose. Tutto per loro è una sfida, una ricerca dell’adrenalina per andare avanti: camminare sui cornicioni, ricercare mutuamente il dolore attraverso morsi ed altro. Un gruppo di ragazzine come loro le seguono, stanno al gioco come gregarie, mentre loro da leader le spingono ad andare oltre. Un edificio abbandonato diventa il loro quartiere generale del mondo alla rovescia dove in una stanza, volutamente pitturata di bianco, raccontano storie terribili, piene di elementi rituali, di un Dio bianco ricorrente, di coccodrilli con le loro mandibole distruttrici. Il tema della bocca che divora tutto ritorna spesso nel romanzo.
Ben scritto, inquietante dall’andamento sinuoso ed attraente, costringe il lettore ad andare avanti nella lettura anche se timoroso di scoprire che la pagina successiva potrà contenere altri elementi repugnanti, disturbanti, ma è il mondo creato o visto da queste ragazze che è distorto. Perché questo? Perché i loro genitori non hanno saputo superare un lutto, o perché, a loro volta, si lasciano andare a ritualità sui generis, zero amore, zero affetto, nemmeno l’ombra della normalità.
E la professoressa Clara cosa c’entra in tutto questo? Anche lei è una reietta, una imitatrice della madre anaffettiva, che imita, anche dopo la sua morte, nella postura, nel modo di vestire, di parlare, di soffrire. Una morta che cammina è Clara che viene presa di mira da due sue allieve che la rapiscono e le infliggono torture indicibili. Da qui forse nasce l’idea del rapimento di Fernanda, anche se spinta da una falsa confessione di Annelise, ma il suo scopo è diverso, è quello di educare, di fare capire come le cose devono andare. O forse no, non è così, forse l’unica verità risiede nella lettura del volume.
Non è un romanzo facile, ad ogni pagina, l’esercizio funambolico si arricchisce di particolari inquietanti, ma la realtà di molti contesti domestici non si discosta dalla durezza del racconto ed a allora è meglio affrontarlo. Perversione, ritualità, deviazioni fanno parte della natura umana e bene stimolati vengono fuori con forza.
Una scrittura fortissima, decisa, anche a tratti respingente accompagna il racconto ed anzi lo caratterizza. Una prova difficile per una scrittrice che lascia il lettore spiazzato sulla poltrona. Il merito di un libro risiede anche nella capacità di lasciare senza parole a riflettere proprio come questo volume.