«Gli anni levigano l’anima come il vento raspa le montagne. Si tende a dimenticare. Soprattutto per non vivere nello sconforto. Ma vi sono persone che non si possono dimenticare. Esse tornano a visitarci con cadenze regolari, come le stagioni. Non ci portano dolore e tristezza come all’inizio, bensì la rassegnata malinconia del ricordo» (pag.59) Mauro Corona
L’ultima fatica letteraria di Mauro Corona, scrittore, alpinista e scultore friulano è il romanzo L’ultimo sorso –Vita di Celio (Ed. Mondadori, pag.200, Collana Scrittori italiani e stranieri). Chi è Celio il protagonista di questa nuova storia raccontata anche questa volta con uno stile grezzo, ruvido, essenziale, al quale Mauro Corona ci ha abituati? Rocciatore, taglialegna, minatore, scalpellino, apicoltore, capace di rubare i segreti di qualsiasi mestiere con gli occhi, grande bevitore. Uomo di poche parole tanto da far aprire il suo libro dei silenzi soltanto a chi sapeva leggerli, misogino, solitario, saggio ed obbediente alle uniche leggi della natura. Nato sotto i cieli di Palazza e Carmelìa da cui il suo nome Celio non ha mai conosciuto suo padre. Allevato dalla madre Efa con tanti sacrifici, ama la libertà in tutte le sue forme.
Di quarant’anni più vecchio dell’autore è per questi guida, mentore, esempio di crescita e di rinuncia, compagno di bevute e di caccia, baluardo contro le violenze paterne, depositario dei segreti del creato. Mauro ed il suo amico vivono ad Erto, un paesino delle Alpi dimenticato da tutti e da Dio, scosceso, ripido ed aspro. Parlano il ladino, un dialetto nobile, antico, vivo come lo sono le montagne che rivelano i loro segreti soltanto a chi possiede il codice giusto e la sensibilità adatta per comprenderle. Tanti i punti in comune tra i due, eppure, lo stesso autore, nelle pagine iniziali del libro avverte il lettore, quasi a voler minimizzare le forti analogie tra sé e Celio. «Il personaggio di questo libro non è mai esistito. Celio è pura invenzione dell’autore. Un eteronimo sfacciatamente pessoano. Ha preso vita, consistenza e carattere nel corso degli anni, elaborando pensieri personali e convenzioni altrui. Sono grato a quei destini che l’hanno generato e alla mia penna. Una vita il misterioso amico l’ha vissuta realmente ma la gente lo ha dimenticato perché si dimenticano volentieri bastian contrari, ribelli ed uomini incandescenti. Coloro che ci sputano in faccia le nostre falsità, ipocrisie, finzioni» (pag 7). E in questa descrizione di Celio seppure sommaria, non ravvisiamo i caratteri peculiari di Mauro Corona? Certamente perché Celio è frutto di un lento e profondo lavoro di introspezione che ha portato l’autore alla soglia dei settant’anni a fare un bilancio della propria vita. Egli ritorna indietro nel tempo e nel descrivere Celio racconta la sua infanzia e la durezza della vita dei luoghi che fanno da sfondo alla storia, affascinanti e impervi come i volti di chi li abita. Celio quindi si palesa come il vero ed unico alter ego dello scrittore.
Ogni abitante di questi luoghi che hanno patito profonde tragedie, basti pensare al disastro della diga del Vajont, ha sviluppato un carattere forte, tenace ma anche diffidente e testardo, orgoglioso e poco incline all’ottimismo. E anche Celio e Mauro sono così e nell’isolamento sperano di soffrire di meno. «Le montagne hanno una base e una punta. Il dolore del mondo è uguale alle montagne, ha una base di partenza e un vertice massimo. Non vivremo abbastanza per smaltire il dolore e per salire le montagne che abbiamo intorno» (pag. 144)
Il lettore segue con partecipazione emotiva tutte le avventure di Celio, dalla caduta dalla culla sospesa in aria alla adolescenza tra le montagne da scalare, dalle povere avventure sentimentali alle serate trascorse nelle taverne a bere un vino rosso ed aspro, dalle pazzie dovute al delirio tremens fino alla morte avvenuta nel 1975.
Celio ha regalato a Mauro due tavoli, una ciotola ed un accendino che con la sua luce tremula, rischiara i ricordi in una sera di inverno.
«Quando mi prende lo sconforto penso a lui. Ho l’impressione che mi dia una mano. Ho preparato una bottiglia che berrò in tuo ricordo. Piano piano, un bicchiere alla volta perché, come tu dicevi, il vino va masticato come il pane. Althòn al goth de la vif, e a la mort l’ulten buf!».(Alziamo il calice alla vita, e alla morte l’ultimo sorso!)