«In questa ragazza spaventata vedo il legame con la mia patria. So poco di lei ma è come se la conoscessi da sempre. Lei è l’Afghanistan. La sua bellezza e la sua innocenza, la sua resistenza al controllo, il suo desiderio di indipendenza, la sua disperazione, la supplica per ottenere l’aiuto da parte di un’estranea. Per tutti i secoli della sua storia, l’Afghanistan ha cercato di formarsi un’identità indipendente dai Paesi stranieri, ma chiedendo aiuto proprio a quei Paesi. Adesso le cose non sono diverse. Gli Stati Uniti e i loro alleati dicono di essere qui per salvare l’Afghanistan, eppure al tempo stesso lo distruggono». (pag.142)
E in questa ricerca disperata di Darya, accompagnata da diversi maharam che indossano pirahan tomban ovvero delle lunghe tuniche con dei pantaloni larghi, l’autrice ritrova se stessa sulle note di un canto popolare sabza o sulle melodie del più famoso cantante afghano scomparso Ahmad Zahir, infagottatata in uno scolorito chador. Forse Darya ha imparato ad obbedire, è diventata una brava ragazza. Questa capacità di adattamento continua a tenere segregate le donne afghane ma è anche il loro modo per sopravvivere.