“Nascere per caso/nascere donna/nascere povera/nascere ebrea/ è troppo in una sola vita” Edith Bruck
L’ultima fatica letteraria di Edith Bruk, Il pane perduto, edito da La Nave di Teseo per la Collana Oceani, pag.126, è un testo commovente e necessario per intensità e memoria. La scrittrice di origini ungheresi, ritorna al suo passato e lo racconta in appena sei capitoli, densi di ricordi e di suggestioni. La sua vita si dipana come in un romanzo ma la storia raccontata è vera. È quella di una bambina povera ed ebrea che conosce Auschwitz, Kaufering, Landsberg, Dachau, Christiansdadt, Bergen-Belsen e che, arrivata ad 89 anni non rinuncia alla propria missione di testimoniare gli orrori della Shoah. Compagna di vita del regista Nelo Risi a cui ha dedicato ben due libri La rondine sul termosifone e Ti lascio dormire ha sempre dimostrato una tenacia, uno spirito indomito, una passione nello scrivere che l’hanno portata ad essere un punto di riferimento per tutti coloro che si battono per la verità, la libertà, il coraggio.
Il 20 febbraio scorso Papa Francesco le ha fatto visita nella sua casa romana e nel salutarla ha detto: «Sono venuto qui da lei per ringraziarla della sua testimonianza e rendere omaggio al popolo martire della pazzia del populismo nazista e con sincerità le ripeto le parole che ho pronunciato dal cuore allo Yad Vashem (N.d.r. Memoriale di Israele delle vittime ebree dell’Olocausto) e che ripeto davanti ad ogni persona che come lei ha sofferto tanto a causa di questo:perdono, Signore, a nome dell’umanità».
Eugenio Murali e Flavia Capone per Letture metropolitane hanno condotto un interessante incontro, via streaming con Edith Bruck. Noi di Maydreams lo abbiamo seguito e ne trascriviamo alcuni passaggi degni di nota.
Eugenio Murali legge le pagine introduttive del libro che descrivono una bambina povera e chiede: Chi era questa bambina?
Edith Bruck: «Una bambina povera ed ebrea che viveva nel villaggio ungherese di Tiszabercel (Seicase) di appena 2300 abitanti, avvelenato dalla propaganda nazista. Tuttavia le leggi razziali non venivano prese sul serio perché c’era tanta ignoranza. Ma una notte tutto cambia. Sfondano la porta di casa nostra e ci dicono che abbiamo solo cinque minuti per prendere qualche vestito di ricambio e lasciare tutto. Mia madre aveva messo a lievitare delle pagnotte con la farina che ci era stata regalata da una vicina. Mia madre era solita dire: “Quando c’è il pane c’è tutto” e ripeteva sconsolata ai soldati la parola pane quasi a voler difendere il pasto dei suoi figli. Corre verso una zuccheriera dove c’erano le medaglie conquistate da mio padre durante la Grande Guerra. Un soldato le butta a terra e le calpesta più volte e poi dà uno schiaffo a mio padre. Sulla copertina del libro c’è una mia foto del 1983 quando rivedo le macerie della mia casa e piango».
Eugenio Murali: Cosa e chi le dà la forza di testimoniare?
Edith Bruck: «È molto faticoso andare nelle scuole e raccontare ai ragazzi la mia esperienza di vita perché rivivo con commozione tutto quello che ho patito. Io per tutti sono una sopravvissuta, non una donna qualsiasi e questo condiziona ancora la mia vita. Ma raccontare è un dovere morale perché la storia viene spesso mistificata e i ragazzi non sanno tante cose. Il loro ascolto, la loro vicinanza mi ripaga del dolore che provo ancora oggi. Devo dire che non conosco l’odio, un sentimento che avvelenerebbe per prima me stessa. È bellissimo provare questo sentimento. Io avevo pietà di chi mi sputava sulle parti intime, li consideravo degli stupidi che non sapevano quello che facevano».
Eugenio Murali: Cosa ha rappresentato per lei Nelo Risi?
Edith Bruck:”Tutto per me. L’ho incontrato e portavo dentro di me questo peso e l’ho condiviso con lui. La prima volta che lo incontrai era il 1957 e siamo andati a pranzo da Totò, un noto ristorante romano e lui mi chiese perchè non avessi mangiato il prosciutto dell’antipasto. Io risposi che ero ebrea . E’ iniziata così la mia storia con lui, un uomo difficile ma si sa che a noi donne piace questo genere di uomini. Ho amato in lui la coerenza, l’incorruttibilità,la sua religiosa laicità. Mi ha sempre incoraggiata alla scrittura. Io cercavo un nido, un posto dove vivere, volevo reinserirmi nella vita dopo la guerra. Ero stata anche in Israele ma non volevo fare il servizio militare. In Italia ,a Roma ho trovato una vita vibrante. Le prime parole di italiano le ho imparate da Ugo Tognazzi:uno,due,tre,radio,programma. Poi ho conosciuto Mario Luzi e Romano Bilenchi ai quali ho fatto leggere alcune cose”.
Flavia Capone: Nella seconda parte del libro lei ci parla delle sue variegate situazioni lavorative con forza e lucidità. Ci può raccontare queste esperienze?
Edith Bruck: «Scrivere per me è stato come respirare ma non si vive con la scrittura e meno che mai di poesia. Nelo aveva portato a termine un documentario sui fratelli Rosselli e il produttore Pirelli non gli dava le 250mila lire pattuite. Non so perché i ricchi non hanno mai soldi. In Israele ho fatto la cameriera, la gelataia, la donna delle pulizie. Non me ne sono mai vergognata . A Roma diventai per 80mila lire al mese, la direttrice di un salone di bellezza in Via Condotti, frequentato da donne ricche, attrici, nobili. Non sapevo che Franca Valeri fosse ebrea e lei non mi chiese mai nulla. La principessa Torlonia mi trattava male, mi offendeva ma poi seppe che scrivevo e cambiò atteggiamento. Nelo non voleva che io lavorassi. Da giornalista ho subito le invidie e le gelosie dei colleghi. Ho sentito frasi tipo: come fa a scrivere se non sa neppure l’italiano? Un direttore di giornale mi disse: Dalle tre alle cinque scopiamo? Tutte le donne sono state molestate e sono molestate sul luogo di lavoro».
Eugenio Murali: Lei ha sempre dovuto lottare nella sua vita. Quando e come sente l’ispirazione a scrivere?
Edith Bruck: «Se non avessi trovato la forza per lottare non sarei qui. Dovevo scrivere, dovevo partorire i libri. Tutto nasce da un dolore,da un’offesa. I pensieri da scrivere mi vengono di notte e ho sempre paura di non ricordare. Non so usare il computer. Scrivo di getto e lo scrivere è molto faticoso e ci vuole tanto,tanto talento. Questo coraggio lo devo a Nelo che mi diceva spesso:Lo sai fare, sì? Fallo ! Allora sei bravissima!».
Flavia Capone: «Il libro si chiude con una lettera a Dio che inizia così: “Scrivo a Te, che non leggerai mai i miei scarabocchi, non risponderai mai alle mie domande , ai miei pensieri di una vita. Pensieri elementari, piccoli, quelli della bambina che è in me, non sono con me e non sono invecchiati con me e neppure cambiati molto”.
Papa Francesco ha letto il suo libro dopo un’intervista che lei ha rilasciato all’Osservatore
Romano e ha chiesto al direttore Andrea Monda di incontrarla Ci può parlare di questo incontro?”
Edith Bruck: «Ho incontrato per la prima volta Papa Francesco tre anni fa e rimasi colpita dalla sua stretta di mano calda e rassicurante. Questa volta pensavo di andare io dal Papa invece è venuto lui a farmi visita. La cosa mi ha molto sorpreso. I giorni precedenti ho discusso con la mia amica-governante, il mio tutto Olga e mia nipote Deborah su come accogliere il Papa, sui vestiti da indossare pronunciando la solita frase: Cosa mi metto?. Sembravamo tre bambine ammattite svuotando l’armadio. Poi è arrivato il giorno fatidico:sabato 20 febbraio. Avevo timore che il Papa non ce la facesse ad entrare nel piccolo ascensore di casa mia. Ho pianto e tremavo quando l’ho visto vestito di bianco…Mi ha portato in regalo il Talmud e il menorah ovvero un candelabro a sette bracci, simbolo di Israele e la sua ultima enciclica con una bella dedica firmata semplicemente Francesco. Siamo stati a parlare per oltre due ore e abbiamo brindato con l’acqua nonostante i tanti dolci preparati da Olga.Ha ricordato i miei 5 punti di luce, come li chiamo io , momenti nei quali, pur nell’orrore dei lager ho sperimentato la bontà degli esseri umani: il soldato che mi spinge a destra tra coloro assegnati ad un lavoro e non a sinistra per le camere a gas, una gavetta con un avanzo di marmellata, un guanto bucato, un soldato che voleva spararmi ma che non lo fece spinto da mia sorella, un cuoco che chiese il mio nome e che non mi chiamò con il numero 11152 che avevo marchiato sul e che mi regalò un pettinino. Papa Francesco ha detto che avrebbe voluto regalarmi lui quel pettinino».