Il film che ha scippato a Io Capitano di Matteo Garrone l’Oscar per la categoria Miglior film straniero è La zona di interesse del visionario regista e sceneggiatore britannico Jonathan Glazer, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Martin Amis pubblicato nel 2014.
Per la prima volta la Shoah, ovvero lo sterminio degli ebrei vittime del genocidio nazista e la banalità del male di Hannah Arendt vengono narrate con gli occhi degli ufficiali e delle loro famiglie che gestiscono l’orrore di Auschwitz vivendo accanto ai prigionieri del campo di sterminio, separati da un semplice muro di cinta.
L’inizio del film è spiazzante e mette in agitazione lo spettatore. La cinepresa inquadra per diverso tempo uno schermo monocromatico e si ascolta una musica realizzata dal sound design Johnnie Burn e dal compositore Mica Levi costituita da gemiti e lamenti, urla soffocate e pulsanti, spari, latrati di cani, rumori di rotaie, combustioni, passi lenti e accelerati che a poco a poco si trasformano in un canto di uccelli che fa da sottofondo a una scena bucolica: un’allegra famigliola ha organizzato un picnic sulle rive di un fiume che scorre placido e lento.
Il capofamiglia è Rudolf Hoss (Christian Friedel) ovvero il comandante del campo di sterminio di Auschwitz che si adopera per renderlo sempre più efficiente approvando il progetto di un nuovo crematorio realizzato dal Topf und Sons per uccidere sempre più persone. Sua moglie Hedwig (Sandra Huller) è un’energica madre di cinque marmocchi che, con l’aiuto di terrorizzate serve polacche, tiene in ordine la grande casa con giardino, orto e piscina. Sognando di fare una vacanza in Italia, finge di non sapere da dove provenga la sua preziosa pelliccia di visone, il suo rossetto e un diamante nascosto nel tubetto del dentifricio.
Il film non mostra alcuna scena di violenza ma costringe lo spettatore ad ascoltare a distanza ravvicinata i suoni della tragedia e della morte e a vedere una normalità spiazzante fatta di prime colazioni abbondanti, di bambini che vanno a scuola con le loro cartelle, di una madre che cura l’orto di casa in modo maniacale perché sa che le verdure fanno bene ai suoi figli, di un padre che torna dal lavoro e legge favole per far addormentare i suoi bambini in letti puliti in camere ordinate con tendine alle finestre.
Lo spettatore si chiede per tutta la durata del film come sia stato possibile accettare e tollerare la contiguità con tale orrore e come sia potuta accadere una cosa del genere senza una mobilitazione delle coscienze.
Tutto quello che è successo è stato compiuto da padri e madri di famiglia in modo pianificato e crudele. Persone come noi normali che hanno assorbito lentamente l’odio verso i propri simili e lo hanno portato nella loro quotidianità con la scusa aberrante di eseguire soltanto degli ordini. E La zona di interesse non vuole fare altro che avvertirci della pericolosità del nostro tempo che ci lascia indifferenti ai rigurgiti del fascismo e del nazismo e che in un certo senso normalizza il genocidio.
La zona di interesse non vuole rievocare qualcosa del passato nebuloso ed irrisolto ma punta la sua attenzione sul presente storico perché alla base di tutto c’è la cattiveria umana che deve essere rintuzzata e combattuta.
Tutte le immagini, tutti i fotogrammi e la colonna sonora rendono il film un capolavoro che va visto, rivisto e meditato. Dobbiamo diventare tutti come la ragazza polacca, impiegata come donna di servizio nella casa degli Hoss che esce di nascosto per nascondere del cibo nei luoghi di lavoro dei prigionieri. Soltanto ritrovando la pietà e l’empatia verso gli altri possiamo vivere un’esistenza degna di essere vissuta.
Alla premiazione nella notte degli Oscar Jonathan Glazer ha detto: «Il nostro film mostra dove la disumanizzazione porta al peggio. La questione non è come persone comuni abbiano potuto agire così ma far rifletter su quanto siamo simili a loro».