Immancabile l’appuntamento con IntraPhotos, la rassegna fotografica curata da Sergio Siano, che ogni volta si tiene presso il Caffè letterario Intramoenia. Un viaggio nelle viscere delle potenzialità artistiche e culturali di Napoli. Questa volta il protagonista dell’incontro è Pino Miraglia, tra i più acclamati fotografi del panorama, particolarmente dedito alla fotografia di musica e spettacoli. IntraPhotos accoglie dunque una personalità di spiccata sensibilità artistica, che trasforma ogni ritratto, in una direzione di intreccio tra comunicazione visiva e gestuale. Abbiamo dunque conosciuto più da vicino il sentimento fotografico di Pino Miraglia, che ci ha svelato intense peculiarità della sua arte dello scatto.
In che modo nasce l’attenzione che lei pone al messaggio visuale, dunque al rapporto tra fotografia e comunicazione visiva?
«Diciamo che ogni buon fotografo, che abbia la consapevolezza di quello che sta facendo, in qualche modo usa nelle sue immagini, una struttura visiva (inquadratura, scelta dell’ottica, contrasto tra gli elementi raffigurati, scelta cromatica). Ogni preferenza, riconduce al suo pensiero e quindi a un significato soggettivo, che l’autore vuole comunicare attraverso l’immagine. Con questo non voglio dire che ogni fotografo usa la fotografia come strumento metaforico della realtà, c’è solo chi lo fa in maniera più elementare e chi in forma più adeguata e complessa. Nel mio modo, sicuramente c’è l’influenza dell’attività teatrale, della pittura e del cinema; Così come delle copertine dei dischi anni settanta e di tutto il repertorio iconico, usato dalla cultura giovanile di quegli anni. Insomma tutta la conoscenza che ha influito il mio pensiero e la mia visione del mondo.»
Quanto è insito nei suoi progetti, l’elemento antropologico e soprattutto quello dell’antropologia semiotica e se c’è una fonte ispiratrice, legata alla crescita in tal senso.
«Anche in questo caso, trovo naturale la consapevolezza e le conoscenze che il fotografo applica al suo operato.La fotografia come strumento innovativo ed unico della “registrazione della realtà” fin dalla sua invenzione, ha avuto un ruolo fondamentale nello studio delle allora nascenti, scienze sociali. La fotografia era ed è un elemento sintetico, rivolto a descrivere le attività delle società più o meno complesse. Fonti ispiratrici per me legate a quest’aspetto, hanno origine negli studi di Propp sulla fiaba e di conseguenza quelli di Roberto De Simone ed Ernesto de Martino sulla cultura popolare campana….e poi, naturalmente, Levi-Strauss e Roland Barthes. I fotografi che mi hanno appassionato sono Luciano D’Alessandro, Ferdinando Scianna, Manuel Alvarez Bravo, Eugene Smith ed in maniera diversa Wynn Bullock.»
L’aspetto antropologico è altresì correlato a quello sociale a cui lei ha dedicato ampio spazio. Tra gli innumerevoli c’è una documentazione? A chi si sente particolarmente legato?
«Nelle foto che faccio, direi che c’è sempre un elemento riconducibile alla storia ed all’evoluzione di un popolo. Ma i lavori che ho eseguito, rivolti specificamente a quest’aspetto, sono pochi, perché eseguire un serio lavoro di fotografia antropologica, richiederebbe anni di ricerche e riprese sul campo (ed io non ho mai avuto sufficientemente tempo). Certamente ci sono però, alcune mie produzioni, che vanno in questo senso. Si tratta di lavori in bianco e nero: Turkye e Solitudini, una serie di immagini sulla terza età nella civiltà contemporanea. La Piazza Trasognata che viene fuori da dieci anni di vissuto a Piazza del Plebiscito. Attualmente invece sto lavorando (a colori), sul territorio Vesuviano e sulla cultura Hip-Hop e Rap in Campania, attraverso i giovani e le periferie napoletane.»
Nei suoi lavori vive altresì l’intenso legame con la musica, espressione della sua descrizione fotografica di eventi. Come spiegherebbe dunque il legame tra il linguaggio della fotografia e quello della musica?
«La musica è stata per me la prima ed inesauribile fonte di gioia e di emozione immateriale che mi ha guidato verso l’introspezione adolescenziale. È il linguaggio artistico fondamentale della mia crescita spirituale e filosofica. Non c’è nulla al mondo di più edificante per l’essere umano. Quindi applicare la fotografia alla musica, ha costituito un passo naturale. Voglio però indicare una precisazione, ovvero, che la musica non va raffigurata, nel senso che, la fotografia musicale non riesce mai ad esprimere appieno, l’essenza del suono. Raccontare i giovani che fanno musica o che frequentano i concerti, i loro sorrisi, il cammino che stanno intraprendendo attraverso l’arte, trovo che sia davvero una meccanica tanto bella, da fotografare.»