Silvia Avallone ha pubblicato di recente un nuovo romanzo dal titolo Cuore nero (Ed. Rizzoli, Collana La Scala, pag. 362).
Dopo Acciaio da cui è stato tratto il film omonimo diretto da Stefano Mordini con Michele Riondino, Vittoria Puccini, Massimo Popolizio (2012), Marina Bellezza, Da dove la vita è perfetta e Un’amicizia, la scrittrice biellese ha realizzato il suo romanzo più maturo, una storia di condanna e di salvezza che indaga le crepe più buie e profonde dell’anima per riempirle di compassione, di vita e di luce, come si legge sulla quarta di copertina.
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Numerose le domande rivolte all’autrice.
Come è nato questo romanzo che viene alla luce dopo circa quattro anni da Un’amicizia?
«Ho sentito l’urgenza di misurarmi con il Male e in questo lungo lasso di tempo ho letto molto per prepararmi alla scrittura, in particolare Delitto e castigo e I promessi sposi che mi hanno ispirato. Si prova una certa empatia per il protagonista del primo romanzo e nel secondo per quello di Frate Cristofaro. É il personaggio più buono, colui che perdona ma si è confrontato con il Male. Non potevo partire dalla cronaca così aspra e violenta ma dalla letteratura che ti chiede comprensione degli eventi e dei personaggi. Emilia incontra il Male a 15 anni. Come si fa poi a crescere e a vivere con questa colpa? Questa è la domanda che mi sono posta».
Nel romanzo la figura di Riccardo, il padre di Emilia, sorprende i lettori. Ce la può descrivere meglio?
«Le femmine non sono violente. Secondo recenti studi sulla corteccia cerebrale hanno maggiori capacità, rispetto ai maschi, di elaborare la sofferenza, la rabbia, la frustrazione. E questo spiegherebbe , almeno in parte, perché solo il 4,2% della popolazione carceraria italiana è di sesso femminile. Ho cercato di ribaltare gli stereotipi per avvicinare Emilia a me. Riccardo , suo padre, la tiene in vita ed evita di farla precipitare. E’ un padre che le dice di portare insieme a lei il peso del Male perché è sua figlia. Riccardo non giustifica le azioni di Emilia ma le comprende e c’è sempre perché è suo padre. Il mio romanzo è frutto di domande e non si trovano soluzioni. Ammetto che è stato più facile parlare di una ragazzina perché la cronaca in un certo senso ti paralizza».
Silvia Avallone è sempre molto attenta alle parole che usa nei suoi romanzi.
«Certo. Scelgo le parole con cura. Ad esempio non dico mai detenute ma studentesse offrendo alle recluse una prospettiva di vita diversa. L’uso improprio delle parole può ferire. Per scrivere questo romanzo sono entrata nella sezione maschile del carcere minorile di Bologna. Penso che ciascuno di noi dovrebbe fare quest’esperienza dedicando un po’ del proprio tempo agli altri Ho portato con me la mia passione per i libri e per le parole. Il linguaggio può diventare una gabbia e tutti dobbiamo imparare parole nuove, diverse. I ragazzi che ho incontrato, ciascuno con una storia diversa, sono diventati degli studenti. Ho detto che il loro destino non era segnato e quando ho letto la poesia Novembre di Giovanni Pascoli si sono illuminati. La lettura e la cultura salvano. Bisogna investire nella scuola e in una comunità che ti porta al cinema, a teatro, in biblioteca. E’ importante far capire ai ragazzi che anche fuori troveranno empatia e solidarietà».
Chi è veramente Emilia, la protagonista del romanzo?
«Dentro sé porta un mistero ed ha una fisicità prorompente. Mi sono messa in cammino con tutti i personaggi che compaiono nel romanzo. Sassaia esiste davvero ed è spopolata. Emilia va a seppellirsi sulle montagne ed incontra Bruno che non la giudica ed è per questo che la voce narrante è lui. Volevo che anche i lettori si trovassero nella sua stessa condizione per guardarla con i suoi occhi. La letteratura ti deve togliere la tranquillità, ti deve mettere in croce anche se il richiamo alla realtà si fa sempre più prepotente. Siamo vivi e dobbiamo fare tesoro di questa vita».
Lei parla con la voce di Bruno mentre Emilia in terza persona. Come mai questa scelta stilistica?
«É stata una scelta istintiva, io non potevo immedesimarmi in Emilia, dovevo raccontarla con gli occhi di una persona che si innamora di lei. Calarmi nei panni di un uomo mi ha divertita perché Bruno è capace di capire, di comprendere, di tendere la mano. Riccardo e Bruno sono buoni».
Cuore nero è il romanzo della sua maturità e anche lei ci sembra meno dura nel creare i suoi personaggi che nel passato erano spesso adolescenti.
«Forse la maternità mi ha cambiata ed è vero sono meno dura. Abbiamo vissuto una pandemia, poi sono scoppiate le guerre e noto tanto odio sui social. Desideravo una fuga verso il Bene. I nostri istinti ci portano ad essere duri ma l’altruismo vince. Io mi accendo nella fiducia degli altri. I figli e l’età ti fanno scomparire la rabbia e le pretese. Andare nel carcere, confrontarmi con quei ragazzi mi ha fatto bene e loro mi hanno insegnato tantissimo anche nella ricerca della serenità che è difficile da trovare».
Quale è la forza di Riccardo?
«Non lo so. Ha una forza straordinaria e sopporta la croce che la figlia gli ha dato. La stimola a studiare, a riappropiarsi della sua vita. Sono convinta che non si cresce se non hai un adulto che ti segue con affetto, dedizione, che fa gesti d’amore. Riccardo vuole attraversare il Male per arrivare al Bene».
Il tempo corre veloce , non si ferma e c’è una sorte di parallelismo tra Emilia e Sassaia.
«Il rumore del mondo andava allontanato e tagliare i ponti con la Storia, un po’ come ha fatto Elsa Morante. A Sassaia puoi ritrovare te stesso nel silenzio, in questo utero di pietra come dico nel romanzo».
Cosa è per lei l’amicizia?
«É un pilastro e in carcere davvero l’amicizia è un punto luce. Marta comprende Emilia come nessuno. Anche se Emilia proviene da una famiglia abbiente, le due ragazze si prendono per mano. Marta la invoglia a studiare, la sprona costantemente».
Cosa pensa del carcere e quale compito hanno gli insegnanti?
«Voglio essere fiduciosa circa il futuro dei ragazzi. Ho visto la passione e la cura che hanno gli insegnanti verso questi giovani che hanno tutto il diritto di essere accolti. La scuola è importantissima, ti salva. L’enorme malessere giovanile va arginato con la cultura e con insegnanti motivati e capaci in modo da insegnare alle future generazioni parole di libertà».