Da domani, giovedì 11 maggio, nelle sale arriva “Qualcosa di troppo”, l’esilarante commedia scritta, diretta e interpretata da Audrey Dana. Distribuito da Adler, il film è un lavoro irriverente e denso di humor che affronta con delicatezza il tema dell’ambivalenza di genere, giocando con gli stereotipi ed i codici comportamentali, rompendo ogni schema. Avete mai pensato a come sarebbe mettersi nei panni di una persona dell’altro sesso, anche solo per un giorno? Jeanne sicuramente no. Fresca di divorzio, lontano dai suoi figli una settimana su due, Jeanne non vuole più sentire parlare di uomini. Ma un bel giorno, la sua vita prende una svolta totalmente inaspettata: a prima vista non sembra essere cambiato nulla in lei… ad eccezione di un piccolo dettaglio! Questo ‘dettaglio’ dà il via alle situazioni più buffe, dove la vediamo ridere con la sua migliore amica, o discutere in preda al panico con il suo ginecologo. La nostra protagonista farà di tutto per cercare di superare questa situazione a dir poco… singolare. Nel cast anche Christian Clavier (Non sposate le mie figlie!), Eric Elmosnino (La famiglia Bélier), Alice Belaidi (11 Donne a Parigi), Antoine Gouy e Joséphine Drai.
Intervista a Audrey Dana
Com’è nata l’idea di “Qualcosa di troppo”?
«Come tante altre donne, mi sono spesso chiesta come sarebbe immedesimarsi in un uomo. Ritengo che tutti abbiamo dentro di noi una parte dell’altro ‘sesso’, e che molti dei comportamenti sessuali siano tipici dell’uno o dell’altro genere, ma non lo trovo giusto. Quale modo migliore per abbattere questi comportamenti se non quello di unire nella stessa persona il genere maschile e quello femminile? Ci sono alcuni uomini che sono più femminili di me, e delle donne che sono più virili di tanti uomini. E in tutta onestà, a volte ho l’impressione di essere un uomo che vive il suo sogno più folle: quello di essere una donna! Questo mi succede perché io sono stata cresciuta così, ‘autorizzata’ ad essere ciò che sono. Viviamo in una società piuttosto maschilista, fondata sul fatto che essere un uomo presupponga molti più diritti. Che succederebbe, quindi, se conferissimo questi onnipotenti attributi maschili a una donna?»
Da quanto tempo aveva in mente di scrivere questa sceneggiatura?
«Vent’anni fa, quando vivevo a New York, sognai che mi svegliavo con un ‘dettaglio’ in più… Mi vestivo in fretta e furia per andare da un medico, per capire cosa mi fosse successo. Quel sogno fu talmente realistico e inquietante che anche dopo che mi svegliai, provavo ancora molto intensamente tutte le sensazioni fisiche che avevo vissuto: avevo dimenticato ciò che si prova a essere donna. Quello strano sogno mi è rimasto in testa. Sentivo che poteva avere un significato intrinseco, ma non sapevo quale fosse. Poi, tre anni fa, durante la fase di postproduzione di 11 Donne a Parigi, mentre montavo una scena con Marina Hands – che interpreta il ruolo di una madre di famiglia ingenua, che vive nell’abnegazione – ho pensato che l’idea di un personaggio come il suo, che si fosse svegliato brutalmente con quel “coso” in più, sarebbe stata perfetta per una commedia. È così che è nata l’idea di farne un film».
Alla scrittura del film hanno collaborato altre due donne, Maud Ameline e Murielle Magellan. Come avete affrontato l’argomento?
«Prima di iniziare a scrivere la sceneggiatura, ho intervistato molti uomini. Temevo che non avrebbero osato parlarmi liberamente, durante le interviste. Perciò, ho promesso loro che gli avrei rivelato il tema del mio film, che era segreto, se loro in cambio mi avessero raccontato tutto di loro, dalla loro infanzia alla loro vita attuale. E così, tutti quegli uomini hanno trovato il coraggio di liberarsi e durante le nostre lunghe sedute hanno parlato del loro sesso e della loro sessualità, senza vergogna, senza timore, senza pudore. Ciò che più mi ha colpito è che tutti mi hanno detto di aver provato un senso di liberazione, alla fine del colloquio, perché era la prima volta che parlavano di quella ‘cosa’ in modo così aperto. Un centinaio di uomini, non sono abbastanza per affrontare un tema del genere. Ma, tutto ciò mi è servito moltissimo per scrivere la sceneggiatura».
La protagonista del film è Jeanne. Ci parli di questa donna?
«Jeanne vive in uno stato di abnegazione. È una donna introversa, sottomessa, che riproduce in maniera evidente lo schema familiare dei suoi genitori. Si dedica totalmente a suo marito e ai suoi figli, lavora coscienziosamente e si dimentica completamente – sebbene sia una donna brillante – del suo reale potenziale. Quando suo marito la lascia, Jeanne prova una collera fortissima verso di lui e nei confronti di tutti gli uomini in generale; poi quando perde la piena custodia dei suoi figli esplode letteralmente! “Se ci prendono anche i figli allora che cosa ci resta?”, pensa lei a quel punto. L’apparizione del ‘coso’, innesca in lei una rivoluzione interiore che la porterà a riconciliarsi con il genere maschile».
Jeanne subisce una metamorfosi, ma senza trasformarsi completamente in uomo…
«Sì. Jeanne si ritrova dall’oggi al domani con un sesso maschile, ma non si trasforma mai in un uomo! È una sorta di miscuglio dei due sessi. È la prima volta che un soggetto del genere viene affrontato in maniera così diretta e divertente sul grande schermo».
Attraverso il personaggio di Jeanne e la sua metamorfosi, il film esplora le frontiere del maschile e del femminile…
«Il mio obiettivo, attraverso questa fiaba, è quello di mettere in discussione la nozione di ‘genere’. Il mio intento non è mai stato quello di mettere in opposizione il maschile e il femminile, gli uomini e le donne, ma, sotto spoglie ludiche – perché si tratta di una commedia! – di far cadere i cliché, e di invitare a una sorta di riconciliazione tra i generi. Il film è un chiaro invito all’equilibrio e all’accettazione delle differenze».
Era evidente sin dal principio che dovesse essere lei a interpretare il ruolo di Jeanne?
«No per niente. È stato il risultato di una lunga riflessione. Sapevo di non poter scegliere una ragazza di 1 metro e 70, con le spalle larghe. Doveva essere un’attrice molto femminile. Inoltre, in questo ruolo si tratta un argomento che è estremamente delicato: il pudore. Claude Lelouch ha affermato che esistono due tipi di registi: i ladri e i violentatori. Io non sono una violentatrice, anzi ci tengo molto al confort totale dei miei attori. La scena della masturbazione, ad esempio, era molto delicata. Io sono molto pudica, non potete immaginare quanta paura avessi sul set, e lo dirigevo io stessa! Come si fa a chiedere a un attore di fare una cosa del genere senza forzarlo o violentarlo, se anche a me, che avevo scritto il film, sembrava una cosa difficilissima? Ho preferito sfidare il mio stesso pudore, piuttosto che violare quello di un’altra persona».
Da dove viene il suo gusto così marcato per la commedia?
«Quando cominciai a recitare a teatro a livello professionale, fui ingaggiata in una ‘pièce de boulevard’[1]. All’epoca, ero un’attrice molto seria, andavo sempre al Théâtre de la Ville a vedere gli spettacoli, provenivo dal Conservatorio d’Orléans ed ero stata ammessa presso la Scuola Superiore di Arti Drammatiche di Parigi. Leggendo il testo mi accorsi che non lo capivo, ma avevo già un bambino da sfamare, e si dava il caso che quel lavoro fosse remunerato e che, fortunatamente, ero stata scelta proprio io! Quella pièce s’intitolava Le Carton, ed era estremamente efficace a livello di meccanismi comici. La sera della prima, il tempo si è fermato, la gente rideva e la mia vita ha preso una svolta. Ho capito perché volevo fare questo mestiere: amo far ridere. Inoltre, ridere fa molto, molto bene alla salute e in quel momento ne avevo proprio bisogno, più che mai!»