«Mi considero un narratore. Provengo da quella cultura remota e contadina che si basava completamente sulla narrazione orale». Pupi Avati
Pupi Avati non solo è uno dei registi più noti del cinema italiano ma è anche autore di numerosi romanzi di successo. Dopo L’archivio del diavolo e il saggio L’alta fantasia da cui lo scorso anno ha tratto il film Dante torna con L’orto americano (pubblicato da Solferino, pag. 176), un romanzo gotico immerso nella storia e sfumato di soprannaturale, in cui la realtà e gli inganni della mente si inseguono e si mescolano senza tregua. Come nella vita.
Subito dopo la Liberazione, in una mattina bolognese, una ragazza in divisa da ausiliaria americana si affaccia per chiedere indicazioni nella bottega di un barbiere. E le basta uno sguardo distratto per fare innamorare un giovane aspirante scrittore. Anni dopo, anche grazie al ricordo di quello sguardo, lui decide di andare in America, assieme ai suoi morti, per scrivere il romanzo definitivo. Ma…
Noi di Mydreams abbiamo partecipato ad un incontro via streaming con il grande regista bolognese organizzato dalle Librerie UBIK per Connessioni.
Numerose le domande rivolte a Pupi Avati.
Con questo romanzo lei ritorna al suo vecchio amore per il Po padano e alla bellezza di quei luoghi e li tinge di atmosfere gotiche, horror e con un senso di inspiegabile. Come mai, quale è stata la genesi de L’orto americano?
«Vede, dopo un lasso di tempo sento la necessità di “fare un tagliando” come per un’auto. Nel mio modo di fare cinema non c’è un genere Pupi Avati come invece c’è per Sorrentino, Garrone o altri registi. Io a 85 anni sono ancora spiazzante, curioso, vivace. Ho realizzato 50 film cercando di rimanere me stesso pur cambiando genere eccetto quello western. Mi fa piacere che abbia colto questo senso di inspiegabile nel romanzo che probabilmente nasce dalla religiosità preconciliare quella vissuta da me da bambino. Il mio scopo è proprio quello di rendere probabile l’improbabile. Non è un caso che le prime pagine del romanzo vedano protagonista un barbiere nel suo locale pieno di specchi dove personaggi e realtà circostante si riflettono continuamente. Mi hanno sempre affascinato le persone disturbate mentalmente che mi hanno arricchito. Molti eventi attendono il protagonista del romanzo anche laboratori di orrori in cui precipita».
In questo romanzo il lettore viaggia insieme a lei cercando di avere un rapporto con la morte e con i morti. In effetti il romanzo è una celebrazione dell’assenza. Come si è nutrito di questo?
«Nella mia vita ho sempre cercato di interloquire con chi non c’è ma è presente. Avere molti morti a cui rivolgere un pensiero non mi obbliga a distinguere tra passato e presente ed ho per loro una grande riconoscenza. Prima di dormire nomino le persone che non ci sono più, adesso ho aggiunto Marina Cicogna, e non mi sento solo. É una cosa che nessuno fa più, perché ormai con la morte le persone vengono cancellate, come se non fossero mai esistite; io invece faccio di tutto per trattenerle. Il protagonista del romanzo , un aspirante romanziere, arriva a dire che più defunti hai e più racconti puoi creare ed è vero perché hai conosciuto molte vite».
Per scrivere questo romanzo ha preso come modello racconti americani?
«Si, in particolare Sheldon Mendelson che è il più grande. E’ però molto diverso scrivere per il cinema dallo scrivere un libro. L’ho detto tante volte perché a cinema è tutta una questione di budget. Ad esempio in un romanzo io posso scrivere che da una montagna scendono cento cavalieri mentre al cinema ne posso far scendere soltanto dieci o venti. La letteratura mi permette di farlo perché un editore non è un produttore. A 85 anni sento il passare del tempo sul mio corpo ma nella mente no, fortunatamente».
C’è una storia che non ha mai raccontato e da cui vorrebbe trarre un film?
«Si, quella di mia madre che arriva in Paradiso e ritrova tutte le sue amiche, quelle con le quali ha trascorso la giovinezza. Mia madre era una fonte inesauribile di racconti. Sapeva trasformare la quotidianità in qualcosa di straordinario».
I vecchi pensano spesso alla morte ma anche il giovane Michelangelo scriveva: ”Non nasce pensiero in me che dentro non abbia la morte”. Condivide questa affermazione?
«Anch’io penso sempre alla morte e l’ho sempre temuta soprattutto quando vedevo morire le persone che amavo da Lucio Dalla agli amici del bar Margherita. Ho una tremenda nostalgia di loro che mi complica la vita».
Lei nasce come musicista. Quanto ha contato il contesto in cui è cresciuto?
«Tantissimo ma in particolare i miei fallimenti musicali. Mi sono reso conto che avevo tanta passione ma non avevo talento. 8 e mezzo di Fellini mi ha cambiato la vita. La visione di quel film è stata una sorta di epifania, di rinascita. Ho visto tanti film ma quello è stato decisivo per farmi prendere la strada del cinema. É brutto dirlo ma la provincia, perché allora così si diceva, è dura e ti critica. Me ne sono reso conto in tempo».
Che rapporto ha Pupi Avati con i libri?
«La gioventù l’ho trascorsa pensando alla musica e ho frequentato l’università in modo distratto. (N.d.r. Laurea in scienze politiche all’Università degli Studi di Firenze) Poi, venendo a Roma, ho incontrato persone colte che parlavano facendo citazioni e che mi hanno fatto scoprire la bellezza dello studio. Consiglio di leggere La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge».
L’orto americano si svolge sul delta del Po. Quali sensazioni le offre questo luogo?
«Io amo le Valli di Comacchio, gli unici luoghi che non hanno subito la mutazione del tempo. Il sole al mattino le illumina di una luce particolare mentre all’imbrunire suscitano paure e terrori atavici. Luoghi tremendi e meravigliosi al tempo stesso e i vecchi e i bambini ne vengono attratti. Con la paura sai che sei vivo».