Nello storico Teatro che fu della famiglia De Filippo, nelle cui teche della hall è conservato la gran parte della storia del teatro napoletano attraverso foto e oggetti degli attori più noti, è andata in scena una storia tutta nuova eppure antica, millenaria tratta dalla drammaturgia della contemporanea Linda Dalisi con l’ideazione e la regia di Andrea De Rosa e la produzione del Teatro Stabile di Napoli, di cui il San Ferdinando fa parte. La storia dal titolo evocativo molto forte E Pecchè? E Pechè? E Pecchè? e dal sottotitolo ancora più interrogativo Pulcinella in Purgatorio, si preannuncia subito diversa perchè il Purgatorio in questione è una scena aperta con tutti i suoi pulcinella già in azione mentre il pubblico arriva e si accomoda in sala. Campane a morto sono la colonna sonora iniziale che da il via al movimento scenico su di un rettangolo ampio e sabbioso dove sono scomparse le quinte e il retro teatro e si sono fatte palco al cui centro una botola, di quelle che per strada nelle grandi città portano alle fogne, diventa come un ring delimitato dai nastri di plastica bianchi e rossi dei lavori in corso al cui centro appare una figura di donna quasi mitologica, dalla voce sovraumana. Una guardiana della botola/soglia dotata di bastone dal suono amplificato per “mazziare” gli eventuali pulcinella evasori che parla in forma oracolare con frasi come “la virtù non ha padrone”, “siate pronti nel momento del sorteggio” e quella ripetuta in loop “dovete aspettare, presto arriverà”. Figura inquieta, come inquiete risultano tutti i cinque pulcinella che rappresentano ognuno la storia di attaccamenti terreni a qualcosa o a qualcuno della stessa città di Napoli e dei suoi simboli. Le luci del teatro si spengono soltanto quando dalla sala arriva sul palco il quinto e ultimo pulcinella, l’unico che stempera il clima di rassegnazione e nevrosi donando al pubblico qualche risata. L’ultimo morto che non sa di esserlo, quello che incarna più fortemente la modalità partenopea popolare di trovare strategie di adattamento attraverso l’ironia e la battuta facile e del volere ingraziarsi tutti per trovare il modo di evadere da un luogo che non si è scelti con la forma del compiacimento, della plageria, del complimento accattivante ma mai sincero. C’è poi il pulcinella dotto interpretato da Massimo Andrei che è la voce del teatro e della sua memoria, con il suo spettacolare monologo sugli insulti tutti in napoletano arcaico e quello dalla frase sempre in loop nun funzion cchiù “i copioni di prima non funzionano più” un’affermazione denuncia che scuote forse i tanti registi e attori presenti in sala nel parterre. Poi nell’angolo seduto su una poltrona ottocentesca sgangherata, il pulcinella più sofisticato che canta in francese come la sua parrucca bianca e boccoluta e a volte danza, porta in scena il tema della reincarnazione attraverso le sue continue, pressanti e sempre diverse domande metafisiche, nel suo incalzante monologo si agita nel racconto di una carrellata sempre più veloce delle sue mille incarnazioni dove stanco si accascia nella polvere confessando: “ho cercato risposte nella musica, nella filosofia, nella matematica e in tanto altro ma pecchè è una maledizione, una condanna, una tortura, ogni cosa che trovavo la perdevo“. E gli ultimi due pulcinella, uno che parla guardando un pallone come fosse il volto della propria amata con su indosso la maglia azzurra del 10 di Maradona e l’altro seminudo con la pancia e la gobba in bella vista che invece di avere una domanda in loop ha dei movimenti tipici della maschera e li ripropone in maniera nevrotica. Il suo monologo è denso di rabbia e l’ira è vomitata con parole urlanti che divengono suoni da oltretomba. L’operazione complessiva del testo risulta avere un effetto di denuncia catartica sui dolori della città di cui la maschera si fa icona e il finale non lieto, nessuno andrà via di lì, non da speranza di redenzione e neppure spiegazioni di sorta, la risposta a tutti i pecchè non c’è, infatti la guardiana chiosa con “e pecchè ndringhete e ndrànghete”. Invece c’è ancora a chi piace pensare, come scriveva Ghoete, che Napoli non sia un Purgatorio ma un Paradiso abitato da demoni, dove la via d’uscita è svegliarsi e accorgersi di Esserci, così che i demoni possano essere cacciati o ritornare ad essere angeli.
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