Ci sono autori legati indissolubilmente ad una città e alla propria storia, perché come nessun altro hanno saputo raccontare l’intimità di un popolo e le sue voci. Pino Daniele, pur avendo fatto tutto questo, ed essendo riconosciuto come il più alto ambasciatore della cultura musicale della sua città, ha valicato i confini della sua terra per diventare interprete di un mondo musicale del tutto originale e unico, viaggiando attraverso il blues ed esplorando sempre sonorità inedite, mantenendo inalterato il suo marchio distintivo e il legame con la sua musica natale.
Nel tuo ultimo lavoro “Tutta N’ata Storia – Vai Mo’ – Live In Napoli” ci sono tantissimi brani della tua storia e poi due pezzi inediti, come s’inseriscono in questo contesto?
«I due inediti volevano essere qualcosa di completamente nuovo e in effetti lo sono. Sono brani realizzati con Phil Palmer, chitarrista che stimo e amo molto, voleva essere un esperimento, la proposta di due cose nuove con un colore più rock,. Nascono dalla voglia di fare qualcosa di diverso, di nuovo.»
Le nuove generazioni ti considerano come il Maradona della musica, com’è cambiato il tuo rapporto con Napoli nel corso del tempo?
«Sicuramente sono più consapevole, il mio rapporto con la città forse è più da portavoce di Napoli nel mondo; riuscire a portare il modo di cantare, il rapporto con la musica, non solo di adesso ma anche la grande tradizione musicale del nostro paese, perché poi portare la tradizione musicale napoletana in giro per il mondo significa in qualche misura rappresentare l’Italia nel suo rapporto con la musica.»
Hai mai sentito la responsabilità di dover raccontare Napoli anche nelle sue evoluzioni sociali, culturali oltre che musicali?
«Beh, questa è un’arma a doppio taglio, non bisogna cadere nell’errore di fare la telecronaca di quello che succede in città, un artista fa quello che si sente di fare e nelle cose che fa viene fuori anche un certo tipo di sensibilità, di quello che può succedere in una città; sai prima quando la musica aveva un indirizzo più sociale, a volte politico, forse era più evidente il racconto di una città, io comunque mi limito a fare quello che so fare e a raccontare Napoli, certo, attraverso quelle che sono le miei esperienze e il mio vissuto, in questo senso si.»
Quanto è difficile il connubio in Italia con altri artisti? E con chi ti piacerebbe collaborare?
«Ho sempre cercato la collaborazione e il confronto, perché credo che nel confronto e nella collaborazione si cresce e ci si rinnova. Io ho una cultura generazionale che si rifà anche ad una professionalità legata allo scambio. Io credo molto nel rapporto con gli altri e credo di essere stato sempre molto disponibili con i miei colleghi e del resto di collaborazioni ne ho fatte tante e continuo a farlo, per rinnovare la mia ispirazione.»
Chi come te ha iniziato negli anni settanta, ha la coscienza che dopo di voi, c’è praticamente un baratro musicalmente parlando? Come vedi le nuove generazioni?
«Noi abbiamo una esperienza più generazionale se vuoi, ma io credo che questo sia un giudizio molto soggettivo, io trovo anche nella musica di oggi delle cose interessanti, e mi piace molto anche unire le due cose, la nostra esperienza e i nuovi linguaggi. Artisti come Raiz o Antonio Onorato sono realtà interessanti, poi tutto è questione di gusto.»
Quanto vi siete divertiti ai tempi d’oro della band di Napoli e quanto vi divertite adesso?
«Proprio dopo i concerti di capodanno a Napoli, James Senese mi ha mandato un sms lunghissimo che io ho interpretato come una dimostrazione di affetto ma anche di realizzazione di un musicista che non si aspettava quello che è successo, in effetti nessuno di noi se lo aspettava. Devo dire che oggi siamo più maturi ci divertiamo con una consapevolezza diversa rispetto ad allora. Prima era anche una questione di costume e di soddisfazioni di vendite discografiche, portare sulla scena nazionale il canto in napoletano, adesso è un divertimento più cosciente, forse anche più completo.»
Cosa ne pensi dei talent show?
«È il nuovo modo di proporre più che contenuti musicali, prestazioni tecniche del cantante o di chi per lui. Sono basati molto sulla gara, dove vince il più bravo sopratutto tecnicamente. Ne ho visti diversi, anche esteri, alcune cose sono anche interessanti, ragazzi molto bravi tecnicamente, comunque ho imparato a non giudicare in base al mio gusto. Sicuramente dimostrano che la musica e le canzoni sono molto cambiati, non più autori che scrivono d’istinto, adesso è molto più raccontare le proprie generazioni e le questioni a se molto vicine, il tutto costruito ad hoc per vendere dischi. Sicuramente ci sono dei meriti, ho suonato con Emma e Alessandra Amoroso e mi hanno stupito, sopratutto per la loro incredibile padronanza sul palco, si muovevano parlavano cantavano senza paura, io sono sempre li a pensare e se adesso non sento, e se mi dimentico qualcosa, loro sembravano essere a casa; questo per dire che c’è sicuramente del buono ma è molto lontano da quello che faccio io e che voglio continuare a fare a modo mio.»
Ti hanno mai chiesto di essere giudice di un talent?
«Non ce la farei, questi li mortificano, loro piangono, io non ce la farei. E giudicare sulla precisione dell’intonazione in modo quasi maniacale. E poi questi che parlano di musica senza aver mai fatto musica, o di look, non potrei mai assolutamente»
Dovendo scegliere tre cd di musica italiana da portare con te, quali sceglieresti e qual’è un duetto che vorresti fare e non hai ancora fatto?
«Solo tre artisti sarebbero per me difficile da citare, io amo Battiato, Fossati, Guccini,Ligabue ma anche Eros e tanti altri, mi riesce difficile citarne solo tre. Io credo che i duetti siano uno scambio di emozioni, come dicevo prima. Per esempio una sera a casa mia venne Antonacci, che io conosco da tanto tempo, ci siamo fatti un piatto di pasta e poi ci siamo messi con le chitarre per divertirci e di li è nato un brano, ecco per me i duetti sono questo uno scambio indipendente da quello che poi uno è e fa.»
Che cosa ti sorprende musicalmente parlando?
«Guarda per anni ho sperimentato con i computer, prendendo quello che ti serve della tecnologia, guardare cioè il pc come una fonte di ispirazione, secondo me è positivo; quello che non mi piace è che con certi nuovi strumenti è come avere la musica già scritta, secondo me il bello è che ci deve sempre essere un interprete che porta con se la sua emotività, mentre un pc suonerà sempre allo stesso modo. Se si prende la tecnologia come uno strumento, che poi va suonato da un musicista, va benissimo è interessante.»