Si intitola “Vinpeel degli orizzonti” il primo romanzo del musicista abruzzese Peppe Millanta, pubblicato da NEO Edizioni di Pescara e già ricoperto di ottimi riscontri di critica e di premi in ambito nazionale. Ma per tutto questo rimandiamo alla rete e non annoiamo oltre con le didascaliche celebrazioni da ufficio. Invece rubiamo tempo e spazio a nostri lettori per farvi leggere le parole vive dell’autore che in qualche modo ci racconta di questo suo libro assolutamente prezioso, diciamo noi di rimando, prezioso nei contenuti evidenti e in quelli sotto le righe, quelli che un poco si prendono il lusso di restare nascosti e concedersi soltanto ai veri amanti delle riflessioni. Il protagonista Vinpeel e la sua personalissima “rinascita” come fuga dal paese dove tutto riposa nell’abitudinario e che Millanta ha deciso di chiamare Dinterbild. Oltre questo mondo “incantato” probabilmente esiste un “altrove”, l’altro posto, quello di tutti noi. Forse dalle maschere sociali si passa alle verità personali? Che sia la vostra vita a misurarsi e a confrontarsi con le verità degli abitanti di Dinterbild. Una scrittura sobria, leggera, scorrevole e ricca di colori di primo acchito infantili… che però sfidano con intelligenza i romantici di tutte le età.
Quando leggo libri che hanno una matrice di fantasia mi chiedo sempre una cosa: come nascono i nomi? Per esempio: Vinpeel, che origine e che genesi ha?
«Sarebbe bello raccontare di un’origine etimologica particolare, o di nomi apparsi in sogno, o di cose del genere. La realtà, ben più banale, è che ho scelto i nomi del romanzo semplicemente per l’ “acustica”, cioè per il suono che avevano. Nel senso delle vibrazioni che mi davano e delle emozioni che mi suscitavano, e di quanto queste rispecchiassero l’essere dei personaggi di cui volevo parlare. Si tratta di nomi che volevo “suonassero bene”. Forse è la deformazione da musicista».
In questa Dinterbild che racconti con tanta semplicità, esiste qualcosa di reale? Cioè ci sono momenti, aneddoti, particolari o anche dei personaggi che hai letteralmente rubato alla realtà che ti circonda?
«In realtà sì, un aneddoto c’è, ed è probabilmente il più incredibile di tutti. Come indizio posso dirti che ha a che fare con l’India e con un enorme pachiderma. Per il resto, sicuramente c’è stato qualche altro furto veniale verso qualche modo di fare di qualche personaggio. Sicuramente Krisheb, il matto, è un po’ la sintesi di vari personaggi leggendari che hanno popolato la mia infanzia, i cosiddetti “strambi” del paese. Però a voler allargare un po’ l’orizzonte, forse tutta la storia, benché sia una favola, attinge molto dal mio vissuto. Volevo raccontare di un luogo dell’anima, un posto dove metaforicamente capita a tutti di abitare, almeno una volta nella propria vita».
Io penso che sia difficile o forse impossibile per un artista discernere il proprio vissuto da ciò che riesce a creare. Tu cosa ne pensi? Se ti affaccia dalla finestra di casa tua, vedi Dinterbild?
«Lo credo anche io, ma che più che dal proprio “vissuto”, dal proprio “sentire”. Brassens non è mai uscito dal proprio paese, Salgari non ha mai visitato la Malesia. Eppure il loro “sentire” li ha portati fino alle loro storie. Ognuno ha dentro mondi inesplorati, e a volte taciuti. L’artista è semplicemente in continuo pellegrinaggio dentro se stesso, accompagnato dalla propria sensibilità. Dalla mia finestra non vedo Dinterbild, ma sicuramente la mia sensibilità, il mio sentire, mi ha portato a creare dei collegamenti tra ciò che mi circonda che mi hanno portato a ragionare su Dinterbild».
Bellissima l’idea di uscire dalla narrazione con storie apparentemente sconnesse. Delle vere e proprie pause dalla narrazione. Come mai questi brevi ma incisivi fuori pista?
«Mi piacciono le storie multi-traccia. Mi piacciono le ghost song. Mi piace il gioco. Mi piace sorprendere ed essere sorpreso. Il romanzo è attraversato da una storia parallela, che si compone di vari micro racconti che attingono ai generi più disparati. Si tratta di storie che sono in contrapposizione con il romanzo vero e proprio, ma che aiutano a meglio definirne l’ambientazione. Il romanzo vuole essere un piccolo inno alla vita. E non c’è nulla di più vitale che potersi permettere il gusto dello stupore».
Senza fare lo spoiler del finale dimmi soltanto una cosa: perché la mongolfiera e non altro? Dalla fantasia si può tirar fuori qualsiasi cosa…
«Perché si tratta di un oggetto che conserva tutta l’innocenza di coloro che per primi sognarono di volare. C’è stata una domanda fatta probabilmente all’alba dell’umanità, “Possiamo volare?”. Una domanda che ha attraversato i secoli e i confini, e alla fine ha trovato una risposta in una cartiera in Francia, quasi per caso. L’entusiasmo e l’innocenza con cui si è risposto di Sì per la prima volta a quella domanda secondo me sono rimaste dentro l’idea della mongolfiera, un mezzo per certi aspetti rozzo, visto che si è in balia della correnti, ma ancora capace di fare sognare».