La comicità toscana incontra quella napoletana con lo spettacolo Come sopravvivere ai lavori in casa, con Michele Caputo, Ilenia lazzarin, Yuri Monaco e Vincenzo De Lucia, commedia scritta da Michele Caputo per la regia di Paolo Migone, in scena al teatro Diana di Napoli, fino al 4 maggio.
La comicità toscana di Paolo Migoni è senza dubbio contaminata già dall’infanzia da quella napoletana. Migone, infatti, da bambino ha vissuto al Vomero, quartiere di Napoli per ben sei anni, inoltre la sua bisnonna era napoletana.
Paolo Migone è un grande cabarettista, folle, geniale, che scruta e si insinua nelle pieghe più remote dell’animo umano, dando vita al personaggio dal pessimismo cosmico, storico e famoso di Zelig, dal camice bianco e l’occhio nero.
Ha frequentato diversi corsi di teatro e soprattutto la scuola di Philippe Blancher e Yves Lebreton. Ha vinto numerosi premi, non ultimo il Delfino D’oro alla carriera. In questi giorni Migone è impegnato ancora con il suo spettacolo, che lo vede da due anni in giro per la penisola, Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, tratto dal libro best seller di John Gray.
È la tua prima regia qui a Napoli?
«No, ne avevo fatta già un’altra nel 2007, con Antonio e Michele, quando erano insieme, Figli di Puk- Questa casa non è un albergo.»
Quindi è una conoscenza di anni…
«Ci siamo conosciuti ancora prima, con il Pippo Kennedy Show e, ci siamo riavvicinati con Zelig, abbiamo fatto alcune puntate insieme e poi, io li ho un po’ aiutati in questo spettacolo che hanno fatto a Napoli, I figli di Puk, mi sono molto dispiaciuto che si sono separati. E con Michele abbiamo continuato a tenerci in contatto.»
Come ha affrontato questa regia?
«Io dico una cosa, un po’ originale, nel senso che i napoletani sono bravi, ma fanno quelle commedie molto classiche, non escono dai quei cliché, secondo me, rimangono legati a quel tipo di teatro. Io venendo dal nord, porto un po’ di idee strane e surreali, di nonsense, faccio queste iniezioni particolari, degli sgambetti alla storia classica, è un po’ sperimentale, questa è una novità.»
C’è qualcosa che ti piace di questo spettacolo, qualche scena particolare e, dove hai messo di più del tuo…
«Conosco Michele ormai bene, quindi, magari vengo anche prima della stesura del testo, scriviamo insieme, cerchiamo battute insieme, non è che faccio solo la regia. Sono anche un po’ autore abusivo ma autore.»
È strano perché la comicità del nord è diversa da quella napoletana…
«Molto diversa, però tipo a Carmine, uno degli attori, io gli do una battuta secca di un rigo, lui la fa, c’inventa sopra, e la fa diventare bellissima. Questo perché voi napoletani avete questa musicalità, inventiva. I napoletani son tutti attori, tutti bravi, incredibile.»
Da questa esperienza napoletana, cercherai di trarre un personaggio tutto tuo?
«No, ma con Michele ci è venuta un’idea su questo incontro nord e sud che crea delle scintille, magari tirar su un’idea per un film, potrebbe essere un pretesto. Ci siamo dati appuntamento in un posto bello, un agriturismo, vicino Siena, con la piscina, a scrivere una settimana insieme, in pieno relax.»
Invece, Paolo Migone cosa farà poi?
«Ho fatto questa tournèe di due anni, Gli uomini vengono da Marte e gli uomini da Venere, è andata benissimo, ho fatto 92 repliche, ed ora chiudo tutta la tournèe a Livorno, la mia città, l’8 maggio. Chiudo tutto e bisogna inventarsi una cosa nuova, ho una mezza idea di uno spettacolo molto pazzo sulla sessualità.»
Non c’è ancora niente di scritto?
«No, però lo penso, mi vengono delle idee in macchina sul rettilineo e, in curva le perdo, se vado di rettilineo le tengo in testa, e riesco a portarle a casa. Il titolo l’ho trovato, è bellissimo, si chiamerà, Il Motore del Mondo, e faccio un po’ uno sproloquio, fuochi d’artificio sul tema, cercando di non essere mai volgare. La volgarità è brutta, io non lo sono mai stato, non è nelle mie corde.»
Ci sarà un nuovo personaggio che inventerai, oltre al mitico personaggio pessimistico che presenti a Zelig?
«Tentai qualche anno fa, avevo fatto una cosa nuova, era quello del futuro, con il camice d’argento e l’occhio nero fatto a triangolo, ma non è andato bene, mi hanno fatto fare due puntate e, poi bocciato subito. Penso che morirò con quel personaggio, son sempre io che racconto della vita, la gente ce l’ha nel cuore quel personaggio. È un fumetto, un perdente, uno che ha preso tante botte, ha l’occhio nero perché è uno che perde tutte le battaglie della vita.»
Qual è stato il tuo primo monologo quando hai iniziato?
«Ero con degli amici in una villa abbandonata piena di calcinacci e, c’erano dei cunicoli, dei corridoi, spazzatura ovunque, poi apro una porticina e mi trovo su un palco, questa villa aveva anche il teatro. Ed io mi ricordo che mi trovai bene ed ebbi la sensazione di essere portato a far l’attore su un palco, c’è stata la famosa campanellina di avvertimento e pensai mi piace qui.»
Non hai iniziato con una compagnia amatoriale, allora…
«No, non mi piacevano quelle che c’erano, a Livorno sono pessime. La scena sul palco è data da un tavolo grande come tutta la scena, e gli attori sono tutti negli angoli perché al centro c’è tutto il tavolo, il protagonista è il tavolo. Poi ci sono le porte, si entra, si esce, un disastro, e mi sono detto, io non voglio nemmeno vederle quelle scene, mi fanno schifo. Mi son sempre rifiutato. Preferivo fare teatro per ragazzi, poi mi sono accorto che i registi per teatro per ragazzi, sono tutti quei registi che non sono mai riusciti a fare i registi per i grandi. Son frustrati e fanno teatro per ragazzi. Con il cabaret mi son salvato, perché facendo l’attore “serio” non riuscivo a guadagnare una lira, morivo di fame, e quindi, col cabaret mi son salvato.»
Hai mai tentato con il cinema?
«Odio la commedia all’italiana, soprattutto con gli attori di ora, quelli buoni sono morti tutti. Non mi piace più, la commediola brillante mi fa schifo, non solo non mi fa ridere, ma mi mette una tristezza. È banale, è bassa, la frase che dicono sempre: il pubblico vuole questo, non è vero, il pubblico va educato, il pubblico vede quello solo. Io porto sempre l’esempio di Wes Anderson che fa dei film semplicissimi, ma sono molto belli, facili, ha quarantacinque anni, perché lui deve fare i film belli e noi no? Non mi sento del gruppone.»