La disinvoltura poliedrica di Alessandro Zannier si muove tra musica, arte e letteratura cavalcando con decisa impennata che si esprime con Chimera, un lavoro, un grande traguardo, per il fondatore del progetto musicale Ottodix. Dopo aver conseguito gli studi presso l’Accademia delle Belle Arti di Venezia esprimendo la sua propensione artistica in un periodo di multivariegate esposizioni tra l’Italia e l’Ungheria, Alessandro Zannier fonda un progetto musicale dal nome Ottodix, l’anno è il 2002; di qui l’ascesa con il lancio e la consecutiva diffusione di 4 dischi ed una raccolta.
Con Ottodix, Alessandro Zannier si pone l’obiettivo di concentrare nei lavori che si svilupperanno, l’arte e la scrittura insieme alla musica….e così prende forma Chimera un percorso che raccoglie tutto quanto si può comunicare ed incrociare, incontrare ed insieme intrecciare con i tre contenitori d’arte di cui Zannier è elevato promotore. Chimera, in circolo dal 10 novembre è dunque un “ibrido” come lo definisce lo stesso artista, un prodotto sonoro orientato a rappresentare la fine delle ideologie e delle utopie del XX secolo. Un tracklist composta d 15 brani: Apocalisse, Ucronìa, Post, Chimere in avvicinamento, L’ultima chiesa, Mulini a vento, Chimera meccanica a vapore, Napoleone, Arpìa, Stormi di uomini volanti, Fine del futuro, Le città immaginarie, Golconda, King Kong, Gli archivi di Tesla.
Un disco corposo che si eleva su di uno spessore assai complesso pronto a raccontare il tramonto di un segmento sociale incapace di mettere in atto nuove utopie. Ampio di arrangiamenti orchestrali, Chimera racchiude un involucro di suoni elettronici insieme a toni di interessante sperimentazione. Chimera non è unicamente un opera musicale; il suo carattere innovativo e di deciso interesse si allarga a lanciare una serie di mostre itineranti. Dieci installazioni inedite in 10 città diverse in circolo nel biennio 2014-2015 e che già hanno visto protagonista luoghi quali Treviso, Marsiglia, Venezia, Berlino e Pechino, che prendono per l’appunto il nome di Chimere. A seguire l’idea del cortometraggio. Quindici minuti di suggestioni in musica che in Chimera- il corto, si avviano a darne corpo e vita.
Un lavoro che abbiamo voluto conoscere dl di dentro, con quattro chiacchiere insieme ad Alessandro Zannier.
Alessandro il tuo sound comunica un impatto acustico assai ricercato ed è chiara l’influenza dell’arte pittorica. Come spieghi la capacità di amalgamare musica ed arte?
«E’ un modo di comporre ibrido, perché non sono di formazione un musicista, ma ho imparato ad esserlo dopo aver fatto studi d’arte ed avere sviluppato tecniche di composizione per immagini, non per musica. Mi sono dunque inventato un modo tutto mio di agire.Probabilmente perché utilizzando l’elettronica e componendo con un approccio “a monitor” si ha un’esperienza già di per se visiva e perché l’elettronica permette di forgiare ed effettare suoni inediti e mai scontati, aprendo ambienti mentali inaspettati. Questo fa sì che spesso ci si possa immaginare un luogo, un film, di cui la musica è colonna sonora e che comincia a suggerire parole appropriate. Ci sono parole che nascono per “quel suono”, su “quel suono” e basta.
Faccio un esempio. Su “Fine del Futuro” ho una bozza di armonia, un testo che si limita al ritornello e un’ idea di base che è quella di una corsa a perdifiato che culmina contro un muro, un impatto e uno scoppio. Costruisco un groove e un giro di basso incalzante, poi sperimentando con una vecchia chitarra scordata degli anni ’50 (di mio padre buonanima, che inserisco anche solo per un secondo in ogni mio disco) mi escono dei riff vicini a un certo blues oscuro. Questo accostamento mi suggerisce un deserto o la campagna americana o delle praterie. Mi viene quindi la frase – “pedala al massimo, spingi sui tuoi muscoli, tra i verdi pascoli che non rivedrai” – Con la scusa della campagna, mi è subentrato dunque un secondo elemento. la corsa è “a pedali”, non in auto. Una corsa in bicicletta, dunque, dove si fa più fatica e in discesa si rischia di rompersi l’osso del collo. E mi esce – ” al primo istante godi la sorpresa, di quanto è facile correre in discesa”-. La suggestione della “bicicletta” mi fa venire ulteriori ideuzze di arrangiamento: un rumore di catena e pedali e un loop di sospiri affannosi organizzati, per dare il senso di fatica che va in crescendo. Con l’elettronica lo puoi fare, ma ci vuole l’idea. E poi il cervello viaggia: mi torna alla mente un quadro cubofuturista dedicato alla velocità e al movimento della bicicletta, in tema con l’aria novecentesca dell’album, e la inserisco: – “il mondo è rapido, vive di conquista, come un ciclista futurista tu l’inseguirai” … Eccetera. Questo è il mio sistema di base di lavoro. L’importante è che l’intero testo e brano abbia un senso, che i reparti siano poi collegati con un crescendo e un climax, e possibilmente una metafora e un senso di base e non solo un’accozzaglia anarchica di sensazioni da poeti maledetti o visionari. Sarebbe troppo comodo.»
L’intera tracklist di Chimera evidenzia una base elettronica molto interessante che lascia spazio ad un’immaginazione così reale che sembra quasi poterla cogliere con l’occhio. Si tratta sempre della tua inclinazione che fa rendere così bene il passaggio dal “pennello” al suono?
«Ti ringrazio, perché non sono mai sicuro che questo effetto finale arrivi. In parte è come già ti ho spiegato prima, in parte e soprattutto, il trucco (difficilissimo) consiste nello scrivere la parola magica nel punto giusto del tappeto musicale, nell’accordo giusto evocativo di quelle arie, oppure all’opposto di creare l’arrangiamento clou esattamente su quella parola o quella frase. Il brano, per come lo concepisco io, è un contrappunto continuo di elementi che si rincorrono e che ogni tanto si incontrano o scontrano, dando vita a lampi di magia, se tutto funziona. Più lampi di magia ci sono, più coordinati sono in un senso finale generale, più il pezzo è valido. I gangli nevralgici di un buon brano sono pochi e sono sempre “appuntamenti felici” tra attori comprimari che lo compongono.
E’ come per gli assoli nel jazz e non solo (anche se non amo gli assoli e i virtuosismi): la magia non sta tanto nella tecnica presuntuosa di esecuzione o nel funambolismo del musicista, quanto nel saper volare apparentemente più lontano possibile dalla struttura originaria, che intanto sotto continua monotona per la sua strada, e saperla periodicamente riagganciare al volo. La sorpresa, il brivido sta tutto lì, nella bravura del rientro in griglia e nel saper giocare con le regole, rispettandole, ma creando un cortocircuito. E’ come un’aquila che vola alto e ogni tanto attacca in picchiata e prende la sua preda. Vedi? parlo per metafore visive, è più forte di me. Forse il mio carattere distintivo è che riesco a visualizzare il suono e questo evoca scenari visivi e filmici. Dove la parola ha un ruolo evocativo importantissimo.»
Nell’ascolto mi sembra di avvertire una chiara influenza di artisti internazionali come i Depeche Mode, Marilyn Manson, i Queen, fino a Franco Battiato. Mi approvi questa sensazione oppure c’è un’altro motivo ispiratore?
«Per i Depeche Mode fai un goal a porta vuota. E’ un gruppo di riferimento da sempre e soprattutto in Chimera ci sono rimandi al mondo sonoro da solista di Alan Wilder con Recoil, soprattutto nelle parti blues, gospel e strumentali del mio album. Con Marilyn Manson non credo, ma capisco cosa vuoi dire: dietro a lui c’è stato Trent Reznor, un genio che nei NIN mi ha influenzato molto dagli anni ’90. I Beatles e i Queen vengono fuori per certe arie molto ricche di cori che ho voluto inserire per dare un effetto barocco al tutto. Dischi come Sgt Pepper’s e A Night At The Opera sono quanto di più visionario ci sia stato nella musica “pop” e mi sembrava giusto omaggiarli, anche per quell’aria retrò che spesso avevano in certi schetch primi ‘900, che servivano a restituire al mio tutto un’ idea novecentesca.
A costo di sembrare blasfemo non sono un grande fan di Battiato, anche se ne rispetto la grandezza in molti brani, ma capisco che un certo mondo di citazioni presente in Chimera lo possa ricordare. Tuttavia ci tengo a sottolineare che io non amo le citazioni di frasi e aforismi presi di qua e di là, o adattare pezzi di testi antichi e presunte logiche aramaiche o usanze berbere o retaggi beduini che trovo un tantino stucchevoli, ma preferisco farne di miei con parole mie. Mi limito a citare avvenimenti o personaggi storici, del cinema o letterari, divenuti ormai patrimonio di tutti e sinonimo di qualcos’altro.»
Chimera è il titolo che hai scelto per racchiudere l’eterogeneità di significati illusori che si incrociano con gli scenari quotidiani appartenenti alla vita dell’uomo? …sempre a metà tra sogno, illusione e realtà?
«Non proprio. Ho scelto Chimera, perché nel linguaggio comune è sinonimo di “utopia”, e questo disco e anche le mie mostre collegate si occupano di dare un volto alle utopie fallite del XX secolo. La chimera nella mitologia è un mostro a tre teste, quindi questo conferisce alla parola “utopia” un’accezione negativa, in quanto analizza solo quelle utopie che alla lunga si sono rivelate negative o addirittura catastrofiche, come certe ideologie o certi miti confezionati ad arte e che ci hanno indottrinato in un certo modo.
Infine, proprio per la sua natura ibrida, il mostro mitologico della chimera rappresenta la convivenza ipotetica di tre diversi mondi. Mi sembrava una metafora calzante del mio triplice pensare e agire nelle arti visive, in musica e nella scrittura.»
Un progetto di grande spessore che non si ferma alla musica ma abbraccia concretamente l’arte, considerata la serie di mostre itineranti previste insieme altresì al progetto del cortometraggio, in cui le visioni prenderanno corpo e vita. Come ti senti di appartenere di fronte a questa intensità progettuale che sta dimensionandosi ampiamente?
«Mi sento di appartenere a questo progetto in quanto mi permette di mettere in campo le mie tre facce simultaneamente. E’ un lavoro molto duro e lungo da percorrere, ma estremamente stimolante. Sta riscuotendo notevole interesse anche fuori dall’Europa (vedi Pechino – Biennale Italia Cina 2014) dove sto portando queste installazioni dalle fattezze di creature allegoriche mostruose. Probabilmente è perché parla della crisi di sistema dell’Occidente, in cui siamo immersi dall’11 settembre del 2001 e questo è un tema su cui l’intero mondo, unito dall’economia globale (non certo dalla solidarietà tra popoli) è sensibile.
Credo che sia perché affronta questo macro-tema e cerca di dare una volta tanto un suo punto di vista originale al problema, fruibile e comprensibile da tutti. Propone una tesi e un’analisi precisa, condivisibile o meno, ma mette finalmente sul tavolo delle questioni che non sono puramente distruttive, ma propositive.
Come superare la crisi? Capendola e non urlando continuamente al complotto globale e all’ “apocalisse”, ad esempio. La proposta è quella di individuare e smantellare le zavorre ereditate dal ‘900 per poter vedere un po’ più in là, in una sorta di esorcismo collettivo di vecchi tabù, perché è chiaro che qualcosa non funziona più, che qualche falso mito è arrivato a capolinea. Sarebbe troppo facile fare tabula rasa di tutto, però; quello è un errore di comodo che fa sempre la guerra.
L’aspetto surreale, mostruoso e grottesco, cinematografico-fiabesco che ho dato alle installazioni e all’album, servono per catturare il pubblico con un affresco cupo, ma pur sempre migliore della realtà. In Chimera camminano mostri antichi e gli uomini volano tra città immaginarie da incubo. Proprio perché è un volo di fantasia, diventa l’unico luogo in cui tutto può ancora essere possibile; anche immaginare il cambiamento del vecchio mondo.»