Salvatore “Salvo” Esposito è balzato agli onori di pubblico e critica interpretando il riluttante anti-eroe della camorra, Genny Savastano, nell’acclamata serie tv Gomorra, di Stefano Sollima. L’attore presenta il suo memoir, Non volevo diventare un boss, l’11 novembre, in una Feltrinelli di Piazza dei Martiri stipata all’inverosimile; ne emerge il racconto corale e imprevedibile della vita di un uomo estroverso, divertente, autoironico e intelligente, che incanta il pubblico con la storia inattesa di come (e per dove) è arrivato a trent’anni.
La giornalista Laura Valente, seduta al suo fianco e moderatrice dell’incontro, ha detto: «Questa non è la storia di un’infanzia difficile». Ed è vero: il lettore ha tra le mani un testo leggero e profondo, votato, semmai, a scongiurare altre infanzie dal diventare difficili. Salvo ha percorso il cammino che lo ha portato al memoir partendo dal bisogno di introspezione che gli aveva instillato una madre nel reparto di oncologia infantile dell’Annunziata, dove era andato, su invito, a portare un sorriso ai bambini malati di cancro. La signora era desiderosa di sapere di Salvo; non di Gennaro, non di Gomorra, di Salvo. E Salvo si è raccontato senza indugi, tra le pagine così come alla presentazione, attorniato dalla sua famiglia d’origine e da quella d’elezione; molti membri del cast di Gomorra erano infatti presenti a supporto, e l’attrice Cristina Donadio, che interpreta Chanel nella serie, ha dato lettura di alcuni brani del libro. Così abbiamo appreso di quel piccolo episodio in ospedale che è stato l’innesco della stesura del memoir; così abbiamo scoperto che l’Annunziata, che prima di essere una clinica è stata un orfanotrofio, fu la prima casa di suo padre Giuseppe, un Esposito nel senso antico di esposto, un orfano.
Abbiamo anche scoperto un ragazzino vulcanico, esuberante, che amava il centro dell’attenzione e che ha imparato, per amore, a cederlo ai fratelli minori; l’abbiamo immaginato, ancora bambino, imporsi nella parte principale di un musical in un villaggio turistico; abbiamo visto negli occhi di Salvo adulto cosa vuol dire nascere, e ribellarsi, ad una periferia ad alto rischio. «In alcuni luoghi la legge di Darwin è più evidente», afferma, raccontando di come il suo carattere esplosivo lo abbia reso protagonista delle mire di selezione della malavita, che sempre cerca tra i più giovani il germe del suo futuro.
Salvo, orgoglioso figlio di un artigiano, che lo ha sostenuto e supportato nella realizzazione dei suoi sogni; Salvo, un ex impiegato del McDonald’s che si è fatto coraggio ed ha seguito la sua vocazione. L’amore per i suoi genitori e per i suoi fratelli emerge ad ogni sillaba del suo lungo discorso su come abbia sentito il bisogno di scrivere di sé per dimostrare che i sogni si avverano, che non vanno soffocati, ma assecondati e nutriti con coraggio. È un ragazzo gentile, che si preoccupa ad alta voce dei bambini in lacrime tra il pubblico, nella sala stipata di affetti, giornalisti e supporter accorsi ad ascoltarlo. Si distrae spesso, anche, ma lo fa con dolcezza. Parla di sé con un’onestà disarmante, nel bene e nel male. Sorprende, per quanto è lontano dai toni oscuri e minacciosi di Genny Savastano.
Anche Diego Nuzzo, con cui ha scritto il libro, racconta con meraviglia il suo primo incontro con l’attore; descrive l’impatto con un ragazzo colto e cordiale, l’antitesi del personaggio che lo ha reso famoso. Una cosa è certa: Salvo ci tiene. Tiene al libro che ha scritto, tiene ai sogni che ha fatto, tiene alla possibilità di spronare altri a seguire l’eco dei propri desideri. Tiene molto, soprattutto, alla leggerezza: «Io avevo due sogni: uno era diventare giocatore del Napoli, e l’altro era diventare attore. Siccome i piedi di Maradona, e la sua corporatura, non li ho avuti…». E dimostra, ad un pubblico adorante, che essere Salvatore ed essere Salvo sono, in fondo, due facce della stessa medaglia.