Aniello Mascia detto Nello nasce a Sala Consilina il 28 dicembre 1946. È un attore e regista italiano. Comincia l’attività di attore in compagini dirette da Ugo D’Alessio, Pupella Maggio, Giustino Durano. Approda successivamente nella compagnia di Eduardo De Filippo, per un breve ma intensissimo apprendistato artistico. Nel 1972 fonda la Cooperativa Teatrale “Gli Ipocriti“, che dirige e di cui è l’animatore principale per circa 25 anni, portando questo organismo fra le massime espressioni del movimento cooperativistico nazionale grazie alle sue qualità di attore, regista e di animatore culturale.
Ti va di parlarci di te, del tuo vissuto, delle tue esperienze prima di entrare a far parte del mondo dello spettacolo?
«Mio padre era un poeta, un latinista e un grecista, amante di cose belle, di pittura, di letteratura, di teatro. All’età di tre anni (sapevo già leggere e scrivere perfettamente) già recitavo a memoria alcune poesie di Pascoli, di Gozzano, di Carducci. Ma il mio cavallo di battaglia era “Il prode Anselmo” di Giovanni Visconti Venosta. Avevo già il mio piccolo repertorio che sciorinavo nel corso della mia quotidiana tournèe, quando con mia madre nel fare la spesa, si sostava ora dal macellaio (“Oh Valentino vestito di nuovo…), ora dal fruttivendolo (“Signorina Felicita, a quest’ora, scende la sera…”), ora dal giornalaio (“Pollicino morta mamma, non sa più di che mangiare…”). Avevo già il mio pubblico, che era quello delle massaie del mercato. Ero insomma un enfant prodige in miniatura. Insomma un predestinato, in qualche modo.»
La tua gavetta vanta la presenza dei massimi esponenti del teatro di quegli anni. Cos’era il teatro per te, com’è cambiato e se ha ancora un senso in questo momento di abbandono culturale?
«Il teatro è un artigianato. L’attore si forma facendolo. Si impara ogni giorno tutti i giorni. Le teorie servono a poco. Bisogna fare. Attore significa essere un privilegiato.»
Dal 1986 dai il via ad un ambizioso progetto artistico incentrato sulla divulgazione e sulla valorizzazione dell’opera di Raffaele Viviani. Cosa ha significato per te e per la tua carriera artistica incentrare un periodo della tua vita su Viviani?
«Viviani è uno dei più grandi autori contemporanei. Insieme a Brecht, Pinter, Beckett. Il suo è teatro realistico di crudele denuncia sociale dovette però fare i conti con l’Italia fascista. L’Italia perbenista, la borghesia benpensante e la cultura e la censura fascista chiesero ed ottennero i tagli sui copioni vivianei. Il fascismo era pronto ad ostacolare la diffusione delle compagnie dialettali e quel teatro regionale-popolare, di cui Viviani era rappresentante. Fu autore, attore, poeta, acrobata, musicista, melodista e cantante del suo teatro. Fu elogiato da uno dei più famosi chansonnier francesi del Novecento, Felix Mayol, e fu molto amico di Ettore Petrolini, dell’attore siciliano Angelo Musco. Fu molto caro anche ai futuristi e soprattutto a Filippo Tommaso Marinetti. Mi è sembrato un dovere oltre che un onore per me napoletano dedicarmi a un artista così imponente.»
Nel 2001 decidi di portare in scena e in TV “Fango”, racconto toccante delle tragiche frane di Sarno nel 1998, che provocarono la morte di 160 persone. Racconto che culmina con una feroce requisitoria contro i responsabili di quella incredibile tragedia annunciata.
«Fango è un altro lavoro uscito fuori per dovere. All’indomani di quella tragedia sentii l’urgenza e la necessità da napoletano di raccontare quello che era avvenuto.»
Il cinema è indubbiamente la massima aspirazione di ogni attore, soprattutto quando a farlo sono personalità eccellenti con un ampio background teatrale. Che metodo utilizzi al cinema?
«Cinema e teatro sono molto diversi. Per sintetizzare e sicuro di cadere nel banale dirò che il teatro è vita e il cinema è macchina. »
Quali saranno i tuoi prossimi impegni?
«Dopo sette anni allo Stabile di Palermo, l’anno che verrà lavorerò allo Stabile di Torino.»