Arriva nelle sale nel 2019 “Tundra”, il nuovo film di Federico Mattioni. Il regista e sceneggiatore romano, dopo “Dalle parti di Astrid” porta al cinema un mockumentary dove immagina una Roma senza più cinema aperti. Il ritrovamento di una pellicola diverrà l’unica salvezza possibile, non prima di essersi fatti un’idea dello stato dell’umanità. Una ragazza e una bambina, di fronte a otto dei cinema dismessi e abbandonati da tempo, troveranno varie forme di umanità. Mattioni sulla trama del film sostiene: «È un lavoro che non si limita a voler parlare dei cinema chiusi, mostrandone le condizioni. C’è molto di più. È una vera e propria presa di coscienza che a molti potrebbe risultare scomoda o indigesta. Ad altri potrebbe invece risvegliare la coscienza e far prendere posizione, cambiando in parte la loro vita». Abbiamo scambiato quattro chiacchere con Federico Mattioni su questo suo nuovo progetto filmico.
Dopo il film “Dalle parti di Astrid” che ha segnato il tuo esordio alla regia, torni dietro la macchina da presa per “Tundra”, un mockumentary dove immagini una Roma senza più cinema aperti. Ce ne parli?
«Mi piace sempre vedere più risvolti dentro uno stato delle cose che non promette nulla di buono per le sale e per la cultura, oltre che per l’umanità, visto e considerato che c’è sempre più ignoranza in giro. A volte ignorare per alcune persone è un vanto. Al contempo però tendono a voler giudicare chi sceglie un modo di vivere e di vedere le cose a loro opposto, senza volontà di conoscenza. Il film nasce da un’esigenza di vitale importanza e al di là dell’idea, forte e originale, la speranza è che possa mettere curiosità anche a tutti coloro che non ne hanno avuta a sufficienza per quello d’esordio, per certi versi dal significato più oscuro o comunque meno alla portata di tutti, nonostante gli evidenti plausi da parte di pubblico e addetti ai lavori (meno la critica che se ne è perlopiù fregata). Riguardo il denso significato del nuovo film preferisco approfondire una volta uscito in sala. Ci sarà modo di parlarne a fondo e di persona. Ovviamente, è un lavoro che non si limita a voler parlare dei cinema chiusi, mostrandone le condizioni. C’è molto di più. È una vera e propria presa di coscienza che a molti potrebbe risultare scomoda o indigesta. Ad altri potrebbe invece risvegliare la coscienza e far prendere posizione, cambiando in parte la loro vita».
Come è nata l’idea di questo tuo nuovo lavoro?
«L’idea del film è nata guardandomi attorno, prendendo coscienza dello stato attuale delle cose. L’idea che la situazione possa precipitare è all’ordine del giorno. E non dipende sempre e solo dal nuovo che avanza, dalle piattaforme streaming che invadono vecchie, e per alcuni obsolete, abitudini. Credo sia un fatto culturale ed è di questo che ho cercato di parlare. Dello stato culturale delle cose, dello stato non culturale che avanza e prende possesso delle esistenze di persone che perseverano nella loro ignoranza, giudicando e occupando posizioni di privilegio senza avere i requisiti per occuparle, beandosi del privilegio e recando danni a coloro che meriterebbero quello stesso posto “abusivamente” occupato. È molto simile alla storia dei cinema chiusi, perché la maggior parte degli esercenti, responsabili o meno del disastro culturale, il cinema non lo amano e non sono minimamente interessati a vederli i film che a volte, pur di guadagnarci e arrotondare, scelgono di presentare nel loro cinema. Quelle rare volte che capita d’incontrare un esercente sinceramente appassionato, si può assistere a scene che scaldano il cuore, tipo ritrovarselo in sala assieme al pubblico e dimostrare di apprezzare il tuo film, com’è accaduto a maggio 2017 a Matera col proprietario del Piccolo».
Come mai la scelta del titolo Tundra?
«Il titolo ha una doppia accezione che verrà rivelata a seguito della visione del film. In primis ho immaginato un paesaggio desolato, desertificato nelle sue essenze naturali primarie da agenti esterni dannosi. Chiaramente i luoghi della cultura raccolta avrebbero dovuto avere più nobili finalità, nelle intenzioni di chi li ha fatti nascere e tirare su. I meccanismi della società e dell’economia poi, col tempo, divengono imprevedibili».
Come è avvenuta la scelta del cast?
«Ho iniziato a fare casting per un altro film del quale si è poi complicata la realizzazione ma è ancora vivo nella mia mente e rimane un obiettivo primario. Ho sempre diversi progetti e quando ho visto che avrei dovuto attendere troppo tempo prima di realizzare un’altra impresa filmica, ho avuto un’intuizione del quale vado molto fiero che ha fatto sì potesse nascere T u n d r a. Pertanto, il cast è stato selezionato principalmente attraverso i provini per l’altro progetto, momentaneamente abortito. Il processo di selezione degli attori è uno dei lavori più lunghi e delicati, decisivi in parte nella realizzazione di un film. Non credo solo per me. Ma vedo che in Italia si tende a voler far nascere i film nel giro di 2-3 mesi, programmando casting un mese prima rispetto alla data effettiva di partenza delle riprese del film. Io la vedo diversamente. Io, come molti maestri del cinema americano o europeo, ad esempio. Penso che un casting sia fatto anche da colloqui utili alla conoscenza frontale dei candidati. Perché un attore, che ha bisogno di attenzione, comprensione chiarezza, deve essere valutato anche dal punto di vista della lealtà e dell’umanità. Studiare assieme in vista del film potrebbe essere un’arma in più a favore, ma in Italia sembra essere una pratica poco battuta, a giudicare dai risultati soprattutto in termini di direzione degli attori».
Nella precedente intervista hai dichiarato: “Un film che per la prima volta ho cominciato a girare senza aver ancora completato la sceneggiatura, né il cast”.
«Appunto perché si tratta di un progetto nato nel mezzo di un altro processo di creazione, molto lungo e complesso, frutto di più stesure della sceneggiatura, è stato un continuo divenire di scoperte, proposte, illuminazioni, suggerite a volte dagli stessi attori durante i provini, che finiscono il più delle volte per sorprendermi. Devo ammettere che quei pochi attori che poi scelgono un tipo di comunicazione frontale, quei pochi caparbi di dimostrare il proprio valore, anche nelle acerbità ordinarie degli esordi, mi fanno sempre più amare il lavoro di direzione. Il lavoro con gli attori è una delle basi primarie del buon cinema. E le loro interpretazioni, oltre che dai registi, possono essere salvate solo da una buona sceneggiatura. Così possono meglio lavorare sulla loro emotività».
Quanto sono durate le riprese?
«Abbiamo concluso il film in sedici giorni, molti dei quali non sono stati nemmeno giorni pieni. Ma le sedici giornate sono state abbondantemente spalmate nell’arco di un anno e mezzo. Purtroppo, tra le innumerevoli persone con le quali ho collaborato, ho incappato, lungi dalla mia volontà ovviamente, in persone poco chiare e obiettive, piuttosto in confusione. Tendo a parlare chiaramente da subito ma noto che le persone si divertono a giocare proprio con quelli che impostano la comunicazione così come faccio io. Così, in corso d’opera ho dovuto sostituire davvero troppe persone, perché la disponibilità per un film non è una cosa leggera, specie se non si ha dietro qualcuno in produzione che provveda per te a sistemarti gli inconvenienti che nel cinema sono all’ordine del giorno. Se sono inconvenienti giornalieri utili allo sviluppo di una ulteriore direzione artistica ben vengano, ma quello che è capitato a “Tundra” ha seriamente rischiato di mandare in malora tutto. Sarà perché uno dei piccoli sponsor del film è di un’agenzia funebre, allora qualcuno ha tentato di buttare tutto in una spirale da black-comedy all’inglese».
In che modo ti sei avvicinato a questa seconda regia?
«Col profondo desiderio di non fermarmi a un’impresa. Voglio continuare a farne sempre di più sorprendenti. Voglio continuare a stupire sempre più. Non sempre sarà possibile, a volte dipende da talmente tanti fattori. Ma è uno degli obiettivi primari della mia vita: stupire, emozionare, spiazzare, fra gli altri. Poi, essendo ancor prima di regista, uno scrittore e sceneggiatore, poeta per vocazione, mi viene naturale creare, inventare storie, e cercare di metterle per immagini almeno alcune».
Qual è il messaggio che vuoi lanciare con questo nuovo film?
«Penso di avere già in parte risposto. Ce ne sono diversi di messaggi nel film ma credo che ce ne sia uno al di sopra di tutti gli altri: tornare a una condivisione curiosamente sana delle emozioni. E questo va oltre il concetto di sala come luogo di aggregazione culturale».
Cosa rappresenta per te la regia?
«Allargando il discorso, penso che la regia sia l’occasione più grande per mettere a fuoco consapevolmente una gestione dell’esistenza frutto di un equilibrio volto a raccontare maniacalmente sfumature e disequilibri. In fondo, ogni film ha una traiettoria, per me simile a quello di una sinfonia, di una ballata, e finisce sempre per riequilibrare la gestione di partenza, attraverso l’insieme dei disequilibri, l’insieme del caos che regna incontrastato nella vita. Un film è vita anche per questo motivo. Spero di essere stato comprensibile, consapevole che domani la regia potrebbe rappresentare qualcosa di nuovo rispetto a oggi. E forse questo è proprio il bello del fare film».