In attesa delle stagioni concertistiche il settembre ricco della musica a Napoli
Mentre il San Carlo è quasi entrato nel vivo del proprio calendario musicale, ed in attesa che l’Associazione Scarlatti inauguri la sua stagione, la vita musicale napoletana palpita e scintilla, in queste giornate e settimane (cupe per altri versi):
dunque non è vero che la nostra città emetta solo i tristi boati della “movida alcolica”, ma per fortuna essa risuona positivamente anche di bellissima musica, diciamo “classica”, per giunta ottimamente eseguita da validi interpreti
(e si perdoni l’uso facilone di quell’etichetta di comodo, ma se dicessi musica “d’arte” o, peggio, “seria”, molti storcerebbero il naso ancor di più).
I turisti che gremiscono il nostro centro storico se ne sono accorti, e così anche tanti napoletani i quali, complice l’ingresso gratuito (o quasi), nonché il bel tempo (o quasi), stanno accorrendo volentieri a questi appuntamenti musicali e riempiono le varie sale da concerto… che poi sale da concerto non sono, o per lo meno non tutte!
Lo è di certo la magnifica Sala Scarlatti del nostro Conservatorio, che sta ospitando la seconda parte della propria stagione annuale (ogni venerdì, ma anche di mercoledì):
interessante soprattutto perché gli interpreti sono gli alunni stessi delle varie classi strumentali e i loro insegnanti più motivati. Tra questi ultimi abbiamo di recente apprezzato, per l’intenzione musicologica più ancora che per la resa esecutiva,
la lezione-concerto del clavicembalista Giorgio Cerasoli, che ha spaziato dai toccatisti tedeschi (Kapsberger) al rococò francese (Rameau), passando per i virginalisti inglesi (Byrd).
Troviamo senz’altro lodevole questa iniziativa che l’istituzione San Pietro a Majella porta avanti, rifiutando di chiudersi in se stessa come invece è accaduto in passato, anzi spalancando le sue preziose porte alla città,
e mostrando così come i nostri giovani si stanno formando con la musica, quella musica che – si spera tanto – offrirà loro, oltre che il diletto artistico, anche buone opportunità lavorative, in Italia oppure all’estero.
Dunque, l’iniziativa è lodevole ma… ancora perfettibile, nel senso ad esempio di ottenere dal pubblico più silenzio e attenzione durante i concerti, o anche, magari, di potenziare l’aspetto della guida all’ascolto (verbale o scritta, ma meglio la prima che la seconda) prima dei concerti stessi, una prassi normalmente seguita ad altre latitudini e tutt’altro che inutile, visto che l’Italia è un paese un po’scarso quanto ad alfabetizzazione musicale.
Viceversa, non sono propriamente sale da concerto le chiese, i chiostri e i vari altri luoghi d’arte e di storia cittadina che in questi giorni stanno ospitando tanta musica dal vivo. Ma ben si prestano a questo scopo e ciò dimostra,
una volta di più, nella città che fu dei quattro antichi conservatori e delle innumerevoli chiese e conventi tutti dotati di proprie cappelle musicali, quanto il connubio arte-musica rimanga valido, oltre che attraente ed attrattivo.
Su questa formula hanno infatti puntato varie rassegne, che si svolgono in questi giorni quasi in contemporanea (un altro aspetto su cui davvero si deve migliorare, attraverso un efficace coordinamento cittadino delle proposte musicali, onde evitare periodi di “troppo pieno” ed altri di “troppo vuoto”).
Tra esse citiamo il festival “Unimusic” della Nuova Orchestra Alessandro Scarlatti, diretto da Gaetano Russo, e il festival “Spinacorona-Passeggiate musicali napoletane”, ideato e diretto da Michele Campanella.
Del primo abbiamo ascoltato, alla chiesa dei SS. Marcellino e Festo, un appuntamento barocco intitolato “Dinastie Napoletane” e dedicato ai concerti strumentali composti dalla famiglia Scarlatti, da Pergolesi e da altri.
Solista, l’acclamato violinista Federico Guglielmo. Un concerto importante, che oltretutto ha consentito al pubblico presente (poco in verità, ma fuori diluviava) di capire quanta voce in capitolo avesse la “premiata ditta” degli Scarlatti anche nella produzione strumentale e segnatamente violinistica
(quel violino che ormai usciva dal rango marginale di raddoppio della polifonia e assurgeva a parte solistica):
cosa peraltro ben compresa già dagli inglesi (pensiamo al Burney), ma in fondo ignorata ancora oggi da noi stessi napoletani, che naturalmente conosciamo le sonate di Domenico Scarlatti ma molto meno l’immensa produzione del padre Alessandro, il cui nome pure risuona ovunque in città (ma forse un po’ a vuoto),
ma della cui grandezza complessiva non siamo sufficientemente orgogliosi né forse edotti. A proposito: quanti sanno, tra i non musicisti o forse anche tra di loro, che la salma del grande Alessandro giace sotto una polverosa lastra tombale della chiesa di Santa Maria di Montesanto (altra luogo idoneo dove farci concerti barocchi)?
Di respiro anche maggiore è stato quello di “Spinacorona”, che ha organizzato concerti in luoghi monumentali solitamente interdetti al pubblico.
(uno per tutti, la Biblioteca del Complesso monumentale dei Gerolamini, ma anche la bella chiesa di San Demetrio e Bonifacio, il Real Museo di Mineralogia, ecc.).
Qui la proposta concertistica è stata particolarmente varia e originale, sia per la composizione dei vari organici (da un ensemble di arpe ad un prestigioso sestetto d’archi, dal violino solo all’ensemble per clarinetto e quartetto d’archi, dal pianoforte solo al coro a cappella, ecc.) che per il repertorio proposto.
Naturalmente non si è potuto seguire tutto (la formula “immersiva” del festival prevedeva che i concerti si succedessero in luoghi diversi a distanza di poche ore nella stessa giornata), ma solo alcune cose.
Cito tra queste un’intensa maratona pianistica dedicata a Franz Liszt, di cui naturalmente Campanella resta tra i maggiori conoscitori e interpreti a livello mondiale, ma qui eseguita col concorso di vari altri pianisti, tra i quali il bravo Andrea Padova (e va detto che ascoltare alcuni brani davvero tenebrosi ed enigmatici di Liszt di sera o addirittura di notte, fa davvero un certo effetto!).
Poi c’è stato un altro eccellente concerto barocco tenuto dall’ensemble torinese “L’Astrée” (Francesco D’Orazio, violino, Daniele Bovo, violoncello, Giorgio Tabacco, clavicembalo: tutti e tre bravissimi),
con musiche di Arcangelo Corelli, Gaetano Pugnani e Pietro Nardini, dove veniva di nuovo affrontato quel particolare periodo di transizione tra Sei e Settecento in cui la musica strumentale si libera dagli stilemi fissi (tipici per esempio delle danze rinascimentali) ed assurge a una nuova dimensione concertante e virtuosistica.
Quindi un concerto eseguito da musicisti autoctoni (finalmente i napoletani!), e nella fattispecie dall’Ensemble Vocale di Napoli diretto da Antonio Spagnolo, con musiche novecentesche di Arvo Pärt, Henryk Górecki, e del giovane italiano Cristian Carrara (Pordenone 1977):
i pezzi per coro a cappella dei primi due – relativamente semplici e quasi sempre in stile accordale – erano accomunati dalla comune ispirazione religiosa e in particolare mariana, molto appropriati per una esecuzione in chiesa (in questo caso la bella chiesa del Gesù vecchio), e resi con la consueta precisione di intonazione e cura del fraseggio e dei volumi sonori cui ci ha abituati l’Ensemble di Spagnolo;
più impegnativo e più vario era il brano di Carrara (O somma luce), ispirato a Dante probabilmente composto per lo scorso anniversario del sommo poeta, anche perché impreziosito dall’intervento del flauto traverso solista (Fabio Fabbrizzi: ottimo, dotato di un bellissimo suono), impegnato in un dialogo, a tratti libero e a tratti concertante, con la compagine vocale.
Infine, il “colpo grosso”: il concerto, sempre al Gesù vecchio, del “Fine Arts Quartet”, formazione cameristica americana tra le più blasonate al mondo, specializzata nel repertorio romantico e tardo-ottocentesco,
che qui associandosi a Michele Campanella proponeva il Quintetto per pianoforte e archi op. 45 di Giuseppe Martucci (Capua 1856 – Napoli 1909), un altro compositore che dovrebbe essere molto caro ai napoletani di oggi (ma lo è?), come d’altronde era e fu ai nostri nonni e bisnonni dei primi decenni del Novecento.
Ha ragione, quindi, Campanella, quando dice che se Martucci è stato finalmente e degnamente riscoperto, lo si deve soprattutto a musicisti che con Napoli hanno un legame particolare, come Carlo Bruni, Riccardo Muti e come lui stesso.
E ha avuto ancora più ragione nel proporre una pagina bella e rara come questo Quintetto, che peraltro non è affatto di facile ascolto ma che, se bene eseguita, come è stato nella presente occasione, sa far apprezzare le sue grandi doti intrinseche, armoniche e contrappuntistiche, prima ancora che tematiche o melodiche.
Quanto al suono del “Quartet”, siamo a livelli altissimi, e chi era presente in chiesa (chiesa gremita, in verità) avrà avuto, come me, quella gradevolissima impressione di sentir suonare “come se fosse un disco”.
Tornando ancora un attimo al barocco, va pure ricordato il pregevole concerto tenuto a villa Pignatelli, per conto dell’Associazione Dissonanzen, da Tommaso Rossi, flauto dolce, e Patrizia Varone, clavicembalo:
il duo, già in altre occasioni apparso straordinariamente ben affiatato, ha proposto un programma monografico dedicato al veneziano Benedetto Marcello, con sei delle sue Sonate per flauto dolce e basso continuo.
Qui il meno che si possa fare è riconoscere al maestro Rossi, oltre alla finezza della scelta repertoriale, la tecnica magistrale con cui esegue e la vivacità di espressione, direi tutta napoletana, che riesce a conferire a ciascun brano.
Molto brava anche la Varone, che ha pure illustrato alcuni procedimenti con cui la parte del basso continuo, solitamente scritta in modo troppo essenziale e senza indicazioni, viene letteralmente ricostruita per far sì ch’essa dialoghi in modo efficace e più accattivante con lo strumento solista.
E altro ancora dovrei citare, sempre ancora restando al tema del barocco: per esempio il festival di “Domus Ars” diretto da Antonio Florio, o le iniziative del Centro di musica antica “Fondazione Pietà de’ Turchini”.
Ma per ora può bastare e sul resto torneremo.