Napoli Files è il nuovo disco dei South Designers, che più che un album sembra essere un ambizioso progetto nato dall’incontro di due artisti partenopei, Antonio Fresa e Fabrizio Fiore.
Antonio è un pianista, arrangiatore, compositore, produttore e direttore d’orchestra, appassionato jazzista e abile compositore di colonne sonore cinematografiche. Una vita dedita alla musica, come tra l’altro è stata quella di Fabrizio, dj, programmatore musicale, remixer.
L’incontro di questi due compositori napoletani, amanti della pluralità del genere contemporaneo quanto di una tradizionale classicità altro non poteva portare che alla creazione di un’idea originale che fondesse vecchio e nuovo, antico con moderno, esaltando la tradizione musicale partenopea.
I due musicisti hanno infatti riproposto una gamma di canzoni di artisti come Sergio Bruni, Roberto Murolo, Nunzia Gallo e Renato Carosone. Le voci sono le stesse, il sound cambia e si fa più frizzante. Una scommessa quella dei South Designers, che si preannuncia una vittoria quasi certa. La musica napoletana tradizionale è stata definita, in passato appunto, la più bella del mondo. In questa occasione sarà proposta attraverso mezzi più moderni senza struggerne la sacralità.
Le voci che hanno partecipato al progetto discografico sono quelle di Cristina Donadio, Raiz, Pietra Montecorvino, Gianfranco e Massimiliano Gallo, impegnati in un duetto virtuali con Nunzio Gallo (il padre).
«Vengo da una famiglia – racconta Antonio Fresa – che non è amante della musica. Ho cercato fortuna negli Stati Uniti dove mi sono confrontato con artisti incredibili, mi sentivo un po’ spaesato, avevo solo 18 anni. L’unico modo per riscaldarmi erano le cuffiette e le voci inconfondibile della Nuova Compagnia di Canto Popolare, Pino Daniele, Murolo. In quel momento mi sono identificato in questo genere, in questa identità. Con Fabrizio è stato un incontro incredibile. Ero stato invitato ad una sfilata a suonare solo con il piano dei pezzi napoletani. L’accostamento sfilata e canzoni di quel genere accompagnate solo dal piano non sarebbe stato dei migliori. È così che chiamo Fabrizio e gli dico: “Fabrì mettiamo i baffi alla Gioconda, riadattiamo i pezzi napoletani!”. Da qui esplode il tutto. E’ nato l’entusiasmo per la condivisione di un DNA comune».
Con questo disco avete voluto provare a valorizzare queste canzoni per renderle accessibile a un pubblico più contemporaneo?
«La sfida è quella. Rilanciare la canzone napoletana che si è persa nel tempo, le nuove generazioni non se sanno tanto».
È quindi alle nuove generazioni che cercate di rivolgervi?
«In parte sì, la sfida sta proprio in quello, comunicarle in luoghi non rappresentati dalla nostra cerchia intima. Portarle nei Club, al momento dell’aperitivo, credere di star ballando qualcosa di contaminato e poi accorgersi di star ascoltando un pezzo napoletano anni ‘50».
Non è la prima volta che classici napoletani vengano ripresi per farne musica in qualche modo da club. “Tu vuò fà l’americano” potrebbe esserne un esempio. Ascoltata da un grande pubblico, rimane comunque musica da discoteca, ascoltata spesso con la classica superficialità delle circostanze che richiedono quelle situazioni. Credete che la vostra proposta possa avere una risonanza diversa?
«Si. Prima di tutto, loro sono australiani, noi napoletani. Abbiamo un amore diverso, incondizionato, che ci appartiene e che ovviamente ci ha aiuta nella costruzione musicale. La nostra è stata una scommessa artistica, non commerciale. Abbiamo proposto scenari diversi ma con le stesse voci. C’è un duetto tra padre e figlio, interpretazioni da brividi. C’è la volontà di esaltare, senza lasciare un effetto nostalgico, valorizzandola e creando qualcosa di qualità».