Mondo Marcio ha dalla sua vari primati. È stato il primo artista rap a sfondare nel 2006 e dare un apripista al filone che ancora oggi conosciamo. È stato il primo a fare un disco (il precedente a questo) incentrato su Mina, che apparentemente è lontana anni luce dal mondo hip hop. Ed è uno di quelli che puntalmente appare sui siti di gossip per i dissing su Twitter, anche se oggi dice che gli haters e affini sono cose superate. Meglio, perché si può parlare, al settimo album, di sola, buona musica. E ne La Freschezza del Marcio ce n’è tanta. Sentite qui…
Hai girato tra Milano, Londra e Los Angeles per fare un disco internazionale. Perché?
«C’è anche New York nella lista. Volevo respirare cose che non si sentono qui da noi, andare a sentire i garage polverosi delle metropoli americane. E così è successo che per esempio in Lost In The World ci sia un’improvvisazione di un britannico, Mr Simmons, un fonico greco e un rapper italiano.»
Cosa non ti piace del panorama italiano?
«Tutti fanno dischi molto simili con le macchine. Io ho portato veri musicisti nell’album, oltre a featuring che non fanno necessariamente figo, ma sono delle belle vittorie artistiche. C’è J.Ax, Fabri Fibra e Bassi Maestro. Ma anche Ghemon, Gemitaiz, Fidia Costantino. Li ho scelti per quello che valgono.»
Sei partito da ragazzino, ora che musica vuoi fare?
«Sono stato il primo dopo Jovanotti e Articolo 31 ad avere un boom nazional-popolare e non sapevo come gestirlo. Per questo mi son dovuto fermare e costruirmi una struttura dietro, per continuare a fare la musica che volevo fare. Questa è la risposta più calzante alla domanda.»
Oggi come ti vedi?
«Ho fatto un fisco che segna libertà artistica, non c’è tradizione che incombe perché sono andato a cercarmi i groove in prima persona fuori dall’Italia. Ho la fortuna di fare l’artista e se lo faccio devo essere ispirato, non annoiato. A New York guardavo i polizieschi in tv e mi è venuto in mente di riprendere quel tipo di sound anni 70. C’è molto di fresco nel disco anche in questi ripescaggi.»
E il mondo della musica come lo vedi?
«La tecnologia è avanzata molto più dell’arte. Ho voluto riscoprire i musicisti in un contesto urban, perché non ci sono solo i producer per fare i dischi. E poi non mi voglio limitare. Non penso neanche al pubblico dei generi quando faccio musica oggi. Voglio essere ascoltato da tutti. Il pubblico del rap è molto giovane, recepisce bene le novità, è vero. Però è anche un pubblico molto preciso e incasellato.»
Cosa ti fa essere vincente ancora al settimo album?
«Credo che l’onestà paghi. E credo nella prova del tempo. Se hai messo una maschera, se hai parlato di quello che non hai vissuto si capisce. E oggi posso dire di fotografare la vita come la vedo in prima persona oggi, non come facevo a 16 anni quando ero incazzato col mondo.»
Ti senti arrivato?
«Giammai! L’arroganza che uso nei pezzi non deve trarre in ingazzo, è un espediente per comunicare speranza a chi crede di non potercela fare. Non ho i superpoteri, non ho raccomandazioni e ce l’ho fatta. Chi mi ascolta può farcela, questo voglio dire.»
Il rap oggi cosa dovrebbe comunicare?
«Ti disco quello che faccio io: lo prendo come il genere self-made per eccellenza, ci sono dei ragazzi specie al Sud che vivono alla giornata e senza certezze. Questo genere piò aiutarti a fare qualcosa, a metterti in gioco. Io poi le canzoni le compongo come tali, non mi fermo a pensare di fare un buon pezzo rap. Devono funzionare come canzoni.»
Fai altro nella vita?
«Ho la Mondo Records che è l’etichetta che seguo in prima persona e che vuole dare una mano a tanti artisti che devono emergere. Ho una linea di abbigliamento, Kilo, che è molto apprezzata perché propone cose diverse. E poi ho in cantiere un romanzo che uscirà entro l’anno. Si chiama La città Fantasma.»