Il suo primo disco di inediti dal 2011 si chiama Astronave Max e arriva dopo un biennio di celebrazioni non scontate. Max Pezzali ha fondato gli 883 oltre 20 anni fa, li ha “ripassati” con raccolte e duetti eccellenti, segno che il riconoscimento (tardivo) di stampa e addetti ai lavori è finalmente arrivato. Ma oggi con il disco nuovo in lancio ha preso una piega più intimista, con una band di musicisti affermati, dove spiccano i suoi testi e melodie, ma soprattutto un sound molto contemporaneo. Ecco come lo descrive lui.
A cosa ti ispiri oggi per scrivere canzoni?
«L’Astronave ha una doppia interpretazione. È un meccanismo che mi permette di vedere la realtà a distanza, in modo da coglierne la relatività. Ed è anche un modo per raccontare i non-luoghi del vivere contemporaneo, la comunità che si comporta secondo riti collettivi. Penso allo sradicamento delle piazze, alle masse nei centri commerciali. Ma penso anche che dopotutto vedo le cose che mi interessano come 20 anni fa, ma forse con una prospettiva diversa. Alla fine è l’emotività che mi interessa.»
Cosa manca invece oggi nelle nuove composizioni?
«Ci ho messo meno club, c’è dell’elettronica ma la discoteca oggi è molto diversa di quella degli anni 90. Ci sono i dj set, un modo diverso di divertirsi ma le dinamiche sono le stesse. Ti capita di andare in un posto e all’inizio sei nostalgico, io poi lo sono per natura. Sei portato a dire: ma che fanno questi pazzi. Invece le storie, i movimenti delle persone sono sempre uguali. Credo sempre che la contemporaneità è il posto più avanzato del progresso umano, quindi sono positivo.»
Sei conosciuto per aver svelato all’Italia le storie della provincia del Nord, è un ruolo che pensi di avere ancora?
«Sono cosciente che l’idea di comunità della provincia è un po’ cambiato, sono tutti molto più proiettati verso la città e ci si è snaturati. Poi con internet non c’è bisogno di immaginare come vivono gli altri, ce l’hai a portata di smarphone ogni secondo. Questo fa la differenza. Prima io in provincia se ero punk o metallaro dovevo per forza convivere con chi la pensava diversamente, perché ce ne erano pochi. Oggi vai sui social network e trovi tutti come te. L’obbligo di coesistenza con persone diverse che c’era prima ti formava meglio all’incontro.»
Era meglio non sapere?
«Una volta ho sentito il cantante dei tedeschi Rammstein dire che loro mischiavano il metal con i Depeche Mode perché erano le uniche musicassette dall’Occidente che ascoltavano.»
Ma l’Italia è un posto migliore oggi?
«Guarda, a 47 anni posso dire di aver visto corsi e ricorsi alternarsi almeno sette otto volte. Quindi mi ricordo che all’epoca dei miei inizi l’ossessione della raccomandazione nel costume italiano era molto sentita. Non si poteva nemmeno immaginare di arginarla. Era un casino, oggi forse è più semplice cercarsi il proprio lotto di Luna.»
E per te è meglio oggi?
«Ho sempre la sindrome da foglio bianco quando inizio un nuovo lavoro. Poi mi chiedo: di che scrivo? Interessa a qualcuno? L’unica è raccontare ciò che conosci, e questa volta ho cercato di raccontare la realtà non con un punto di vista di giovane o vecchio ma con l’ottica della grande visione.»
A cosa non ti senti ancora pronto?
«Forse a fare il talent scout. Ho scritto un pezzo per un ragazzo di X Factor, Davide Merlini, ma prendermi la responsabilità di seguire un talento non credo che sia nelle mie corde ora, ma sarebbe bello passare il testimone in qualche modo.»
Per la parte musicale hai chiamato dei musicisti di mondi diversi, perché?
«Ho stimato il ruolo che ha nel rock italiano Sergio Carnevale, come batterista dei Bluvertigo. E Luca Serpenti con il suo gruppo electro ha una personalità molto interessante. Le sonorità sono da band, escono fuori con una dinamica non precisa ma ricca di anima. Non mi interessa la perfezione: con Astronave Max vorrei non annoiare l’ascoltatore e quindi bisogna inventarsi modi sorprendenti di suonare. Già è duro oggi ascoltare un album dall’inizio alla fine…»
Fammi un elenco delle cose che non sopporti di questi anni, dai…
«Tutti i featuring nella musica, si sono sbizzarriti tutti e si è abusato di questo mezzo. Anche il parrucchiere fa il featuring in un disco. Sono critico anche sugli strumenti tecnologici usati banalmente, quelli che su facebook ripostano le foto con le scritte, ma si capisce di cosa si parla? Sono tutti uguali. Twitter è più immediato infatti non ha successo in Italia perché chiedere a un italiano di restare in 140 caratteri è un’impresa. In genere ripenso alla verità che raccontavano i Public Enemy anni fa: Don’t Believe the Hype. Ho paura delle spiegazioni troppo semplici per le realtà molto complicate.»