Sottovoce e urlato, dai bassi alle platee, dai salotti dei ricchi ai vicoli dei poveri, Massimo Ranieri è davvero l’ultima voce di Napoli credibile. Perché non si stanca di innovare nella tradizione e nel riportare alla giusta ribalta le perle nascoste dello scrigno musicale partenopeo.
Il nuovo album Malìa – Napoli 1950-1960 è tutto un jazzare su canzoni che molti ricordano nei night delle estati di quando l’Italia era bella. Accarezzame, Nun è peccato, Doce Doce, e ovviamente il Carosone di Tu vuo’ fa’ l’americano o il Peppino di Capri di Luna Caprese.
Come hai deciso di fare un disco con dei jazzisti?
«Ero preoccupato soprattutto del non interferire con dei grandi professionisti come Stefano di Battista o Ernico Rava, che sono i fiati del disco. Io sono un modesto cantante e non volevo sovrastare grandi musicisti. È stato il più bel viaggio musicale dei miei ultimi 15 anni e lo devo a Mauro Pagani, il produttore. È uno che quando deve farmi una cazziata non si risparmia. E la decisione di usare il linguaggio jazz per queste grandi canzoni nascoste nella nostra memoria è stata naturale.»
Quanto ci avete messo per farlo?
«La stesura è stata attenta ma poi abbiamo registrato 9 pezzi in tre giorni senza sovraincidere. Sono onorato di aver lavorato con professionisti del genere. Con i primi 4 dischi sulla canzone napoletana sono andato sul velluto, erano classici sicuri. Quando abbiamo deciso di fare questo, volevamo fare delle perle di un periodo che non ho vissuto a pieno, sono nato nel 1951…ma che ricordo perfettamente come atmosfera.»
Sono canzoni che avete scelto assieme?
«Io ho debuttato in un locale di piazza Municipio a Napoli nel 1964 esibendomi in inglese davanti a un pubblico di militari che parlavano solo americano. Ho voluto riavvicinarmi a quel mondo dei night, dove non si urlava ma si sussurrava per reggere 5 o 6 ore di live. E mi sono ricordato dei night di Capri e Ischia che suonavano sempre queste canzoni, con delicatezza. Senza grandi sovrastrutture avevo paura di sbracare ovviamente, perché Mauro mi dice “Non fare il cantante di piazza”.»
Cosa ti ricorderai maggiormente di questa esperienza?
«Anzitutto la voglio portare dal vivo e anche in tv, quando parte il mio programma in Rai a gennaio 2016. E poi ricorderò per sempre la bellezza della musica fatta in studio senza scrittura, la musica che nasce dall’unione di varie sensibilità che provano. È indescrivibile.»
Sei ancora appassionato del tuo lavoro così tanto…cosa pensi del pop odierno?
«Esiste un pop? Me lo chiedo, non è una provocazione. C’è una tale confusione di generi e non sempre si tratta di contaminazioni. Prima c’era la contaminazione, quando i grandi batteristi a Napoli suonavano sulle navi americane e si mettevano poi a suonare coi ragazzini in strada.»
A chi sono diretti i tuoi cd oggi?
«Non è un problema che mi pongo, come per il teatro. Quando ho fatto Riccardo III che non è stato un successo di botteghino, l’ho fatto perché in quel momento sentivo fosse una cosa giusta per me. Io lo faccio per me, sono un vecchio romantico. Del resto sono stato lontano dalla canzone per vent’anni perché sentivo di dovermi migliorare e il teatro è la porta che sono andato a bussare. E poi è arrivato Mauro Pagani che mi ha risvegliato l’interesse per la musica pop.»