Ha iniziato a cantare per caso con i Mattafix, il gruppo reggae-pop che nel decennio scorso si fece notare con la grande hit Big City Life. Ma oggi Marlon Roudette è un artista solista in cerca di affermazione e di consensi da solo. E già ne ha tanti, a partire dall’ambiente discografico, sempre molto competitivo. E dai fan, che specie in Europa gli tributano molto affetto. Il lancio del primo album da lista nel 2011 con la canzone New Age è stato il successo britannico più grande in Germania in 30 anni. Oggi, trainato dal successo del primo singolo “When The Beat Drops Out” arriva nei negozi “Electric Soul”, il nuovo album di Marlon Roudette che descrive come “Un classico moderno di R&B elettronico”. Ci siamo fatti spiegare tutti i dettagli.
Cosa ti viene in mente quando torni in Italia dopo il successo dei Mattafix?
«Stare qui mi ricorda i nostri inizi, il concertone che facemmo in Duomo a Milano con affianco nomi come Sting. C’erano 100mila persone o forse più in piazza. E io mi sentivo improvvisato rispetto a lui che propose con estrema naturalezza una cover Dub di Roxanne. Questa volta ho ricominciato da uno show di calcio in tv (è stato ospite a Quelli Che Il Calcio, ndr) con un bravo presentatore, che mi ricorda molto un giovane Salvador Dalì (si riferisce al conduttore Nicola Savino, ndr).»
Come giudichi la tua carriera?
«Ho iniziato coi Mattafix a cantare perché non c’era nessuno disponibile. E sebbene abbia cominciato tardi, credo di aver sviluppato un tono e un carattere personale. Per questo mi dicono in molti che sono riconoscibile. Poi ho alimentato questa passione e ora sicuramente sono in grado di raggiungere stili che all’inizio della mia carriera non pensavo nemmeno di toccare. Dentro la mia musica ci sono le mie influenze street e black, ma anche i miei ascolti preferiti. Che sono poi la musica soul, Sam Cooke e Massive Attack. Ora sono in una posizione molto favorevole perché il disco sta per essere lanciato in tutto il mondo, ho progetti per l’America e mi sento molto in accordo con le persone che mi seguono.»
Perché avete scelto come singolo d’apertura When The Beat Drops Out?
«Ero molto consapevole che tutti i pezzi dell’album potessero essere delle buone presentazioni. Ma in definitiva volevo differenziarmi e quindi abbiamo puntato sul brano che ha lo steeldrum più evidente, questo strumento che uso che è un omaggio ai Caraibi, che è la terra dove ho vissuto dai 9 anni.»
C’è ambivalenza nella tua musica: il black e il pop. Dove vuoi arrivare?
«Non so perché ma ho questa esigenza di far ascoltare quello che faccio al maggior numero di persone possibile. E quindi ora che la mia voce è cambiata e mi sento più sicuro rispetto ai tempi dei Mattafix mi sono deciso a includere le mie radici nell’album, ma anche una produzione adatta. Francamente, mi sono concentrato a scrivere le canzoni al piano, per quanto strano possa sembrare, e poi solo dopo a curare la produzione. E credo si senta. Sono ambizioso, lo ammetto, ma non è che non abbia dei momenti in cui penso: Sono abbastanza credibile come solista, visto che non ho un training da cantante classico?»
Sei anche molto più sperimentale che in passato, a cosa è dovuto?
«Vedo il mondo in modo diverso, sono padre da un anno e solitamente scrivo in base alle esperienze che ho avuto. Quando si è sciolta la band non è stato un periodo facile e credo di poter produrre musica positiva proprio quando riesco a superare i momenti negativi.»
Come descriveresti questo disco?
«Va in una direzione precisa, è un lavoro solido che risulta coeso perché in tutti i pezzi ci sono delle cose comuni. Mi sono dedicato con tutto me stesso alla stesura musicale, volevo che non apparisse con influenze caraibiche da vacanza. Non è una cartolina, ma il frutto di anni di esperienza.»