Mario Gelardi è l’autore di 12 baci sulla bocca, un melodramma andato in scena in questi giorni al Nuovo teatro Sanità di Napoli, teatro dove il regista e sceneggiatore cura la direzione artistica stagione 2014/2015. “12 baci sulla bocca”, parla di una bellissima e intensa storia d’amore tra due uomini, il lavapiatti Emilio e Massimo, che si sta per sposare e ha come fratello Antonio, un losco individuo gestore di un ristorante.
Assente è l’omosessualità stereotipata o superficiale, ma presente è la grettezza e intolleranza dell’etero virile Antonio che ha riluttanza a parlare con il fratello, il represso e innamorato Massimo, quando scopre l’intrigo amoroso tra i due, lo induce a difendere ogni sospetto, in un mondo che nega l’esistenza.
Uno spaccato degli anni ’70 riconducibile perfettamente ai giorni nostri, un documentario di figure tragiche a cui siamo abituati sia nella letteratura che nella storia quotidiana, e non lascia dubbi il cattivo è chi osteggia la vibrante storia d’amore, vittima della deficienza altrui.
Un testo scritto qualche anno fa..com’è nato?
«È nato in un periodo in cui a Napoli ci sono stati alcuni brutti avvenimenti, abbastanza violenti legati all’omofobia, in particolare a Piazza Bellini. E da lì sentivo l’esigenza di raccontare l’intolleranza, per farla diventare più storicizzata, invece, di raccontarla ai giorni d’oggi, ho voluto vedere da dove partiva questa intolleranza, in realtà, poi ho riscontrato e ti fa pensare che non fosse finita mai. Anche la battuta “a noi non ci possono sopportare né i comunisti né i fascisti”, anche adesso è così, è un problema politico soprattutto, oltre di accettazione e di tante altre cose. E, quindi, c’era questa esigenza forte di raccontare soprattutto le persone. Perché se uno parla per concetti o sociali, che è giustissimo, ma non è quello che deve fare un artista o un autore. Io volevo raccontare i sentimenti, l’amore, l’intolleranza e la difficoltà.»
È un testo infatti molto attuale, un’intolleranza che sembra non finire…
«Io penso di sì, spesso mi hanno detto il contrario, che affronto l’argomento in maniera sorpassata, ma non sono molto d’accordo con questo. Magari l’omofobia stessa non è espressa in maniera evidente, però è sempre qualcosa di molto sottile, che sta nel linguaggio e nell’atteggiamento. Secondo me bisogna sempre stare in guardia, non far finta che i problemi non esistono.»
Però si racconta anche una grande storia d’amore…
«Penso sia la cosa più interessante, a un certo punto dimentichi il sesso dei protagonisti, non dovrebbe essere importante, ma fondamentale è la storia d’amore. Io l’ho pensata come a un melodramma, anche come inserire la canzone finale, Ipocrisia di Angela Luce ne fa un moderno melodramma, quindi, è tutto molto forte ed essenziale nei rapporti umani, e, anche per questo, che l’ho voluta ambientare negli anni.»
Parliamo delle critiche, non solo quelle giornalistiche.
«Il mio spettacolo, in linea di massima, è sempre molto amato. È stato non moltissimo accettato da una certa generazione di omosessuali, quelli più giovani, e, poi, ogni tanto, da qualche militante che riscontra nel finale una mia presunta omofobia, perché il protagonista muore, e non dovrebbe succedere. Il problema nel momento in cui muore, tutta la gente, chi guarda, pensa che c’è una persona cattiva che ha ucciso Emilio, l’identificazione c’è per chi muore e forse riflette un attimo.»
Gli omosessuali ti hanno attaccato perché dicono sempre che, alla fine di ogni storia, uno dei due muore. Ma credo sia anche giusto in questo melodramma che racconta di un grandissimo amore, una grande storia vissuta, ma osteggiata che purtroppo sfocia in un omicidio. Un messaggio in più per non fare accadere tutto ciò…
«Esatto, ecco perché l’identificazione è con chi muore, non con chi uccide. Era nelle mie intenzioni, non cerco mai di essere educativo. Faccio teatro e basta, racconto delle storie, non è che, se racconto delle storie sul nazismo, io sono un nazista.»
Hai preso la direzione artistica del Nuovo teatro Sanità…
«C’è anche un laboratorio con in ragazzi che appartengono al posto. È anche un teatro di quartiere, nel senso che è aperto a tutto il quartiere quasi tutti i giorni. È una casa, l’idea era proprio di una residenza in cui i ragazzi possono venire e rimanere, invece, di stare in mezzo alla strada, qui trovano libri, trovano noi, con cui parlare. Hanno lavorato, per un mese e mezzo, su Pasolini che non sapevano nemmeno chi fosse, ed è un lavoro che ti riempie il cuore.»
State preparando qualche spettacolo?
«Io non insegno, lo fanno altri, abbiamo una compagnia formata da questi ragazzi che, da poco, hanno debuttato in uno spettacolo che si chiama “Scimmie” per la regia di Carlo Caracciolo, che andrà in scena anche ad un festival a Roma.»
Prossimo tuo progetto?
«Debuttiamo dal 2 aprile, con uno spettacolo, che si chiama “La Terza Comunione”, sempre al Nuovo Teatro Sanità di Napoli.»