Inevitabile associare il bravissimo attore e regista Marco D’Amore a una delle serie tv più acclamate di tutti i tempi, Gomorra. La sua destrezza mista alle sue passate esperienze teatrali ha valorizzato il personaggio Ciro Di Marzio, detto “l’Immortale”. In questi giorni Marco è sul set di Gomorra, dopo il suo impegno registico e attoriale con American Buffalo di David Mamet, adattamento teatrale di Maurizio de Giovanni, spettacolo in cui interpreta ‘O Professore e che porterà in giro nella prossima stagione teatrale in tutta Italia. La prossima estate girerà Drive me home, opera prima di Simone Catania, nel ruolo di Agostino, un camionista, un road movie che parlerà di una grande amicizia. Prossimamente al cinema lo vedremo in un personaggio estremo, Er Merda, nel film Brutti e Cattivi diretto da Cosimo Gomez con protagonista Claudio Santamaria. Lo abbiamo incontrato a Sorrento alla Giornate Professionali di Cinema, dove ha ricevuto la targa ANEC “Claudio Zanchi” per i giovani artisti.
Togliamoci subito il dente. In questi giorni sei impegnato sul set di Gomorra, puoi parlarci di qualche scena che stai girando?
«Non si può anticipare nulla. Ritengo sacrosanto rispettare l’attesa. Il set di Gomorra è sempre entusiasmante, perché sappiamo di essere, fortunatamente, i protagonisti di un progetto benvoluto, però siamo anche consapevoli di fare un racconto di una fetta della nostra società molto amara, che fa soffrire tanta gente e ne sentiamo la responsabilità».
Tra poco al cinema con Brutti e Cattivi…
«Confesso che è un progetto al quale sono davvero molto legato, eppure non sono il protagonista, lo è Claudio Santamaria. È un progetto che ho sposato fin dall’inizio. Sono stato il primo attore scelto, ho aiutato il regista per quello che potevo. È un film che si esprime attraverso un linguaggio molto innovativo e s’iscrive in un filone partito da Jeeg Robot e spero possa continuare a dare frutti molto belli. Racconta di un’umanità che molto spesso è osservata attraverso la lente del pietismo e, invece, in questo film, dimostra quanto l’essere umano, nonostante le menomazioni del corpo, ha sempre la possibilità di rispondere, attraverso lo spirito e l’emotività, in una maniera sorprendente».
Da poco è stato presentato alla Feltrinelli di Napoli il corto, Uomo in mare, in cui tu interpreti un testimone di giustizia. Puoi parlarci di questo progetto e poi quand’è che da cittadino ti senti poco protetto?
«Il racconto che fa il film rispetto all’esperienza del testimone è veramente interessante, perché non lo incontra né all’inizio né alla fine del percorso, ma in una fase di mezzo. Nel momento in cui, queste persone, che hanno “semplicemente” compiuto il proprio dovere da cittadini, sono sospese in un limbo fatto di mesi, magari anni di attesa. Estirpati completamente dalla propria vita, dai proprio affetti e anche dalla propria vita professionale e che sembrano, all’occhio di chi li osserva, dei criminali, piuttosto che degli esseri che, invece, hanno compiuto un atto di giustizia. Questa cosa mi ha sorpreso molto e ho sposato subito l’entusiasmo del regista Emanuele Palamara e del co-sceneggiatore Pietro Albino Di Pasquale. Oggi, però, alla luce del risultato shock del processo Eternit che ha deciso di procedere per omicidio colposo – vicenda che ho raccontato al cinema insieme a Francesco Ghiacci – ti dico che non mi sento tutelato dalla giustizia. Credo che quello sia un’altra possibilità che il nostro Paese ha mancato, per attestare un diritto fondamentale, che è la salvaguardia dei lavoratori, rispetto a quello che fanno e alla salute e penso che sia sempre di più un incentivo per chi produce e non lo fa bene, di poterla fare franca. Questo è un percorso molto pericoloso, se penso al futuro».
Cosa pensi delle varie parodie che vengono fatte su Gomorra?
«Penso sia il prodotto dell’entusiasmo che è nato intorno al nostro lavoro. Sono molto convinto del fatto che io non farò mai la parodia del mio personaggio, perché altrimenti non riuscirei a ripresentarlo agli occhi del pubblico, perché, ovviamente, per quanto mi riguarda, ho una visione tragica del mio personaggio, né parodica né farsesca. Sono in parte divertito rispetto ai risultati che vengono fuori dalle parodie e dai giochi che ci sono intorno a quello che facciamo, sono semplicemente testimonianze dell’ammirazione che si ha verso un progetto, quante parodie ci sono state intorno a Il Padrino, ancora oggi si scimmiottano personaggi, fa parte di un immaginario collettivo di cui, oramai, Gomorra fa parte, quindi, va benissimo».
Grande successo a teatro per lo spettacolo American Buffalo, di cui sei anche regista. Come mai ha scelto questo testo e qual è la tua lettura registica?
«È la prima regia che affronto su commissione, prima in maniera indipendente con il mio gruppo, ne avevo già fatte tre. La scelta del testo è condivisa al 50% con Luca Barbareschi, lui è il detentore dei diritti di Mamet in Italia il quale mi aveva proposto di lavorare a quest’autore e mi ha fatto scoprire American Buffalo, di cui io conoscevo solo la versione cinematografica. Pensavo fosse solamente un film e invece, quando ho letto il testo, mi sono imbattuto in alcuni esseri umani che mi era capitato di incontrare nella mia vita, in adolescenza. Ho rivisto un pezzo della mia storia, infatti, ho tradotto e tradito il testo in napoletano. Questa storia è partita da Chicago e si è trasferita in una botteguccia napoletana. Lo spettacolo ha inaugurato la nuova stagione al Teatro Eliseo. È stato un mese di grande successo, sia di pubblico che di critica. L’anno prossimo lo porteremo in giro in tutta Italia e spero possa incontrare i favori anche degli altri connazionali dello stivale».
Un altro riconoscimento alle Giornate Professionali di Cinema. Che anno è stato questo 2016 e cosa ti aspetti dal nuovo anno?
«Per me è stato l’anno in cui, finalmente, ho cominciato a realizzare il mio desiderio di muovermi in ambiti diversi, cioè teatro, cinema e tv e di farlo non semplicemente come interprete, ma anche come produttore rispetto a “Un Posto Sicuro” al cinema, come regista rispetto “American Buffalo” a teatro. Mi auguro che possa essere l’inizio di quello che ho sempre desiderato fare e che mi sia data anche la possibilità, perché, dal canto mio, non smetterò mai di lavorare affinché questo avvenga, però sapete bene che c’è una partecipazione, c’è un concorso di colpe e se io lo faccio c’è anche qualcuno che me ne deve dare la possibilità, speriamo».
Come intendi il successo?
«Non lo so, a me spaventa un po’ rispetto alle manifestazioni di entusiasmo. Lo vivo facendo sempre un bilancio di quello che ho la possibilità di fare nella vita, quindi, per me il successo è avere la fortuna e la possibilità di scegliere di poter continuare a fare il mio il mio mestiere e di non avere il cappio al collo dell’economia, per cui devo fare certe cose per vivere, perché quello ovviamente è deprimente. Ci sono tantissimi miei colleghi e colleghe meravigliosi che sono costretti a cedere a questo ricatto, lo vivo così, però, con grande sobrietà, so che la vita è molto strana e può succedere di tutto e cerco di costruire dei ponti che siano solidi e che si basino su delle fondamenta solide e importanti ed è tutto dedicato semplicemente al lavoro, a nessuna velleità né di popolarità né di superficialità».
Parlando di regia, pensi di fare qualcosa per il cinema, di affrontare un lungometraggio con qualche tema particolare?
«Sì, ci penso tanto. Non ti nascondo che mi sono arrivate anche delle proposte, però, anche in questo sono molto accorto. La regia è un passo importante verso cui sento una responsabilità forte, quindi, dovrebbe esserci una storia che, viene o da me o che mi è proposta, verso la quale io debba sentire un legame indissolubile, allora sì. Per il momento ci tengo molto a lavorare con il mio gruppo, con Francesco Ghiaccio stiamo scrivendo il secondo film che co-produrremo sempre insieme con Indiana Production Company, adesso mi occuperò di questo».
T’interesserebbe un lavoro negli Stati Uniti e magari in che tipo di film?
«In verità, non ho il sogno americano, forse sono l’unico in Italia che lo dice da sempre. Ho desiderio di affermarmi nel mio Paese, mi sento un attore europeo e penso che l’Italia sia uno dei centri dei problemi più interessanti da raccontare, perché al cinema e al teatro se non racconti di problemi, di che parli? Mi auguro di poter lavorare sempre di più e di potermi affermare in Italia. Sono convinto che sia giusto avere dei sogni e dei desideri, di misurarsi con altri linguaggi, con altri autori anche fuori dalla nostra terra, però, molto spesso, soffro, vedendo alcuni meravigliosi attori, costretti a dire due battute in un film americano, quando, invece, potrebbero fare in Italia tranquillamente i protagonisti e ben altro».