“Chi sostiene che in Iran non c’è democrazia dovrebbe incolpare la nostra cultura, non il governo”. Recita così una battuta intensa del film di Makhmalbaf, che definire ‘nuovo’ è un’imprecisione; Shabhaye Zayandeh – Rood (The nights of Zayandeh – Rood) è una pellicola del 1990 strappata tardivamente agli archivi della censura iraniana, che è comunque riuscita a distruggerne 42 minuti. 42 minuti di dialogo profondo, esistenziale, dice il regista. 42 minuti in cui allo spettatore veniva spiegata la brutale realtà della guerra, la sua insensatezza; immagini di torture, arresti, attacchi, suicidi per il dolore di aver perso la dignità, la speranza e la casa. Mohsen Makhmalbaf, nella casa che racconta con tanta grazia ed onestà, non può tornarci; il pluripremiato pioniere dei diritti umani e di un cinema responsabile che non sia solo decorazione, è fuggito dal nativo Iran per protesta contro il regime dodici anni or sono, vivendo in Afghanistan, in Tajikistan, a Parigi e infine a Londra. Il suo esilio volontario è il più grande atto di denuncia in una lunga carriera di romanziere e filmmaker che lo ha sempre visto in prima linea tra le file dei detrattori della crudeltà di qualsiasi regime. Shabhaye Zayandeh ha aperto, ventisei anni dopo essere stato girato, la sezione Venezia Classici alla 73 Mostra Internazionale d’arte cinematografica a Venezia; Makhmalbaf porta sullo schermo la storia di un antropologo che ha perduto la speranza nelle persone, che sono il solo vero motore del cambiamento, e di sua figlia, che lavora nel reparto emergenze di un ospedale in cui si avvicendano i più curiosi e strazianti casi di suicidio; due vite che si muovono sullo sfondo di un prima, un dopo ed un durante, a cavallo della rivoluzione iraniana del 1979. È un film in cui, spiega il regista, si menzionano per la prima volta temi delicati e profondi per la cultura da cui provengono; sullo schermo c’è una donna che parla di se stessa e dei suoi desideri, l’amore è un elemento centrale della storia sviscerato con onestà e delicatezza. Durante l’incontro di presentazione del lavoro salvato dal ceppo della censura, tenutosi il 28 settembre all’interno della manifestazione Venezia a Napoli. Il cinema esteso, il regista ci tiene a sottolineare come sia la cultura a creare le dittature, e non il contrario. Non esiste un cambiamento che non parta dalla coscienza comune, prima di arrivare ai vertici governativi, e le persone devono essere messe in condizione di vedere la realtà, di imparare a pensare con la propria testa, di conoscere e riconoscere l’ingiustizia. «Il cinema – dice – non è turismo. Il cinema ci dà la possibilità di capirci. Se ci conosciamo, se io so chi sei tu e tu sai chi sono io, non possiamo combatterci. Il cinema ha la responsabilità di renderci comprensibili gli uni agli altri».
È una lotta all’ignoranza e alla sua presunzione, quella di Makhmalbaf: il Viaggio a Kandahar del 2001 e il resto della sua produzione cinematografica e letteraria sono l’epitomo di un pensiero scomodo, imponente, di innovazione perché onesto e coraggioso, costruito sulla convinzione che il buon cinema, soprattutto, sia uno strumento di aggregazione che insegna il pensiero critico e la prospettiva. «Un film, quando è fatto bene, ti insegna a cogliere le sfumature, ti apre la mente – ha dichiarato il regista – un buon filmmaker comprende che il cinema è un mezzo, uno strumento: ci consente di avere esperienza gli uni degli altri, nella nostra diversità».
Mohsen Makhmalbaf guarda Napoli filtrandola attraverso i suoi occhi di bambino, che la leggevano nei racconti giunti in Iran durante gli anni della sua infanzia; ama Alberto Moravia; riflette con attenzione sullo stato dell’arte cinematografica in Italia e nel mondo. «L’Iran – dice – è forse l’unico Paese che perseguita con tanta ferocia i suoi filmmakers. Li arresta, li tortura, invia terroristi ad ucciderli». Ma lui, che in prima persona ha subito un tentativo di attentato, non si ferma: continua a credere che, dove c’è una storia da raccontare, c’è un uomo che ha la responsabilità ed il dovere di raccontarla. «C’è una teoria in psicologia che ascrive il pensiero, il comportamento e le emozioni della gente in un triangolo, mettendoli in una relazione consequenziale – spiega, e gli brillano gli occhi – “questo vuol dire che, se riusciamo a stimolare le persone fino a cambiarne il pensiero, alla fine potremo cambiare le cose».