«Amo le sfide, amo tuffarmi dentro acque agitate e cercare un appiglio, uno scoglio, un arcipelago da scoprire come un vero esploratore»
Sono diversi gli spettacoli che negli anni il regista, drammaturgo e attore italiano Luciano Melchionna ha portato in scena, contribuendo ad apportare un contributo all’arte del teatro con le sue storie mai scontate, che hanno lasciato sempre spunti di riflessione. “L’ala destra del Dio di cuoio” (Prodotto da Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro in collaborazione con SportOpera) è il titolo del nuovo spettacolo di Luciano Melchionna, con Veronica D’Elia e Sara Esposito, scritto a quattro mani con Sara Bilotti. La messa in scena, al Teatro Nuovo di Napoli dal 17 febbraio, omaggia Pier Paolo Pasolini e il suo amato gioco del calcio.
Cosa può raccontarci del suo ultimo spettacolo “L’ala destra del Dio di cuoio”?
«Amo le sfide, amo tuffarmi dentro acque agitate e cercare un appiglio, uno scoglio, un arcipelago da scoprire come un vero esploratore, mettendo insieme informazioni e proiezioni per farne ponti. Lanciarsi in un simile progetto, sfiorare un profeta unico al mondo – che ha detto tanto e sul quale tanto si è già detto – e raccontare come mi vibra dentro e come rimbalza e decanta fuori da me è stata una scelta irrinunciabile. Pasolini il profeta, appunto, l’intellettuale, il poeta, il temerario provocatore era agito dalle contraddizioni apparenti agli occhi dell’uomo superficiale ma tipiche di una grande mente. Era religioso Pasolini, animato da una religione non confessionale ovviamente, una tensione continua come la definisce lui, una tensione che è l’anima del mondo, che svela il miracolo delle cose, di tutte
le cose, anche del calcio come imprescindibile formazione dell’adulto tramite il gioco, la sana competizione, il ricamo delle proprie potenzialità fisiche e mentali, agite con mente limpida, in grado di neutralizzare il grande inganno. Inganno che invece poi ha preteso di inglobarla la nostra mente e ha fagocitato il calcio, spogliandolo di ogni sacralità e piegandolo al servizio del dio denaro. Così facciamo noi esseri umani, così ci avvisava Lui».
In una precedente intervista ha dichiarato: «Nel mio modo di lavorare c’è sempre l’ascoltare e annusare l’aria che tira intorno a me. Cerco sempre di raccontare qualcosa che in qualche modo ho sperimentato sulla mia pelle, qualcosa che ho letto negli occhi di chi mi sta intorno». Quanto è stato lungo e complesso questo lavoro prima di portarlo in scena?
«Questa volta gli occhi che mi hanno ispirato – oltre quelli degli ideatori di Sport Opera, Claudio Di Palma e Geppi Liguoro che mi hanno spronato e provocato a scrivere anche il seguito di Spoglia/toy – sono stati proprio quelli di Pasolini: un vecchio articolo di giornale lo ritraeva accanto ad un altro articolo con un’altra foto di gente perduta, di lestofanti arroganti come il loro troppo denaro esibito, sporco come i loro occhi. Gli occhi di quel ‘cristo’, accanto, hanno conquistato la mia attenzione, mi hanno incantato, accarezzato l’anima, inumidito gli occhi. Il lavoro di lettura e approfondimento è durato mesi, ho letto tutto il possibile di e su Pasolini, all’inizio faticando, qua e là, ad entrare fino in fondo nel suo mondo altissimo, non lo nascondo, poi ho cominciato a vomitare parole e pensieri che avevano un senso, quasi mio malgrado: ho sentito di aver capito, all’improvviso, ed è nata la poesia che chiude lo spettacolo e che a mio avviso racconta esattamente chi è stato, per me, questo uomo incredibile».
In ogni sua opera c’è sempre un aspetto molto forte che colpisce la parte emozionale dello spettatore. Ne “L’ala destra del Dio cuoio” su quali elementi ha maggiormente lavorato?
«La religione e il calcio, due aspetti apparentemente lontani tra loro e da Pasolini stesso, solo apparentemente però: in pochi hanno saputo cogliere così profondamente l’anima e la tensione ‘miracolosa’ delle cose e nessun altro intellettuale, forse, ha saputo recuperare e difendere la dimensione adolescenziale, umile, sana e primigenia del gioco».
Il primo battito di questo spettacolo ha preso forma dal suo precedente lavoro “Spoglia-Toy” in cui lei ha spiegato: «ho voluto spogliare questi divi del calcio, che improvvisamente si ritrovano vivi, ma che probabilmente come uomini fanno una grandissima fatica a crescere, diventare adulti, a vivere la propria vita». Qual è stato lo spunto che ha fatto nascere il lei la voglia di portare in scena “L’ala destra del Dio di cuoio”?
«Mi capita spesso di lanciarmi in un lavoro dimenticando tutto ciò che già sapevo, partendo da uno spunto – in questo caso il finale di Spoglia/toy con la voce di Pasolini che rimbomba sulle nostre coscienze e quindi la volontà di approfondire il discorso – la mia mente si azzera e ricomincia ad accogliere input come appunti su un foglio bianco, entro in una sorta di trance da cui esco fuori solo dopo il debutto: fatico molto a rispondere alle domande che poi mi si fanno a tal riguardo, credo fermamente che le risposte siano nel testo, nello spettacolo stesso, e forse, spero, scorrano nel mio essere inconsapevolmente consapevole di non voler aggiungere molto di più».
È il racconto visionario e poetico di due anime in gioco, Pier Paolo Pasolini e Amedeo Biavati, ala destra del Bologna ‘d’oro, due figure, due voci, due vite, unite in un sogno che si intrecciano e si mescolano tra loro. In che modo ha cercato di raccontare queste due figure?
«Pasolini e Biavati, entrambi puri, entrambi disposti a tutto pur di produrre poesia in ogni modo, pagando cara la rinuncia a vendere i propri valori, i propri principi, i propri ideali. Studiando, mi sono imbattuto in una curiosità che mi ha davvero sorpreso: un solo uomo ha ricevuto l’onore di una richiesta d’autografo da parte di Pasolini, e quell’uomo è stato proprio Biavati, l’ala destra del Bologna degli anni d’oro. Questa notizia mi ha colpito molto e ho cominciato dunque ad indagare su questo calciatore, a cercare analogie di vita e d’anima, ad appassionarmi a questo binomio così diverso eppure così fertile nell’accostamento».
Uno spettacolo scritto a quattro mani con Sara Bilotti, un omaggio a Pasolini, su ciò che ha rappresentato e rappresenta nella nostra società, e sul suo amore incondizionato e crudele per la vita, per la poesia, per il teatro e per il calcio. In che modo le vostre penne si sono incrociate e compensate?
«L’incontro con Sara nella mia vita è stato un gran dono. Ho letto un suo strepitoso noir e, insieme ad un altro sceneggiatore, abbiamo deciso di tirarne giù un film che spero si realizzi presto. Il suo mondo di carne sangue viscere e poesia ha soffiato nuova linfa nel mio. Credo ci accomuni la passione sfrenata per la parola e uno sguardo sull’umanità frutto di un vissuto, più o meno silenziosamente, violento. Detto ciò, la mia visione del dentro/fuori messa a servizio del teatro è stata una guida per la sua raffinatissima capacità di disegnare le immagini con analogie di rara e sorprendente intensità. Un vero scambio, dunque, davvero stimolante. Insieme abbiamo composto una sinfonia impossibile da ‘suonare’ altrimenti, a mio avviso».
In scena Veronica D’Elia e Sara Esposito con le quali aveva già lavorato precedentemente in altri suoi spettacoli. Come mai la scelta di due donne in scena?
«Entrambe le attrici sono state mie allieve nel triennio dell’Accademia del Teatro Bellini di Napoli da me diretto. Entrambe hanno colto un aspetto profondo e importante del mio metodo e del mio ‘fuoco sacro’. Entrambe hanno una spinta irreversibile nel farsi tramite e prestare il proprio essere ad una storia e a dei personaggi senza rinunciare al proprio mondo, mettendolo a servizio ad ogni costo. Sono completamente diverse, apparentemente, nell’approccio e assolutamente identiche nell’afflato: le anime perfette, dunque, per raccontare rispettivamente il mio Pasolini e il mio Biavati, senza rimanere in superficie ma scendendo nel profondo di una normalissima diversità ovvero il perfetto equilibrio tra maschile e femminile, fondamentale per ogni essere umano degno di questa definizione».
Qual è il messaggio che si cela dietro questo spettacolo?
«Non amo i messaggi, amo solleticare le teste e i cuori, suggerire riflessioni e regalare quello che per me è l’unico vero divertimento: le emozioni».
Attualmente sta lavorando ad altri progetti?
«Sì, sto lavorando ad alcuni progetti teatrali – con Ente Teatro Cronaca con cui collaboro ormai da anni e che, tra gli altri spettacoli, ha prodotto il mio Parenti serpenti attualmente in tournée per il quinto anno, incredibile ma vero! – e cinematografici che mi appassionano e che al momento però sono ancora vittime del singhiozzo tipico del periodo, purtroppo».
In questo momento così difficile che dura ormai da due anni qual è il suo pensiero?
«Voglio essere realistico, anche se potrò apparire pessimista – la differenza sta nel guardare in faccia la realtà per rimboccarsi le maniche invece di nascondere la testa nella sabbia aurea dell’irreale consolatorio – la pandemia è stata ed è una cartina tornasole per gli esseri umani, e purtroppo quello che ho visto e mi vedo intorno ha il sapore della direzione sbagliata, esattamente come profetizzava Il poeta, avvisandoci che una volta imboccata ‘quella strada’ poi sarebbe stato impossibile tornare indietro. Ecco, la pandemia ce ne ha dato conferma definitiva. Detto questo, si accettano e attendono miracoli, però, e noi artisti abbiamo la grande fortuna e il doloroso ma rinfrancante privilegio di poter sublimare la realtà, indicare una o più vie, ricordando a noi stessi e agli altri che tanti piccoli gesti possono fare la differenza. Ora, però, subito, non aspettiamo oltre, guardandoci bene stavolta dal demonizzare e crocifiggere l’ennesimo eroe».