«A chi prigioniero per nascita si inventa il modo per essere libero»
L’ultima fatica letteraria di Lorenzo Marone è Le madri non dormono mai, pubblicato da Einaudi, Collana Stile Libero, pag. 352.
Il romanzo è un libro potente e commovente che narra la storia di una madre e di un figlio che vivono in carcere. Quella di portare i figli con sé è una possibilità prevista dalla legge 354 del 1975 e nel 2011 è stata approvata una legge che consente , salvo i casi di eccezionali esigenze cautelari dovute a gravi reati, la possibilità di scontare la pena in una Casa Famiglia Protetta, dove le donne che non hanno un posto dove andare possono trascorrere la detenzione domiciliare portando con sé i bambini fino a 10 anni. Tali strutture vengono chiamate ICAM acronimo che sta per Istituto a custodia attenuata per detenute madri.
Noi di Mydreams abbiamo partecipato ad un incontro con l’autore per Connessioni, organizzato dalle librerie UBIK. Numerose le domande rivolte a Lorenzo Marone.
Quando ha pensato di scrivere un romanzo che vede protagonisti due vite fragili in un contesto così particolare come quello degli ICAM?
«Da sempre lo scrivere rappresenta per me un’azione terapeutica e mi sento quasi un privilegiato a svolgere il mestiere di scrittore. Tutto è nato dalla voglia di raccontare gli ultimi, i meno fortunati e dare loro voce. Ho visitato l’ICAM di Lauro, in provincia di Avellino e sono rimasto colpito dalle storie che mi hanno raccontato. È una realtà poco nota che pone un grande interrogativo: perché dei bimbi innocenti devono trascorrere una parte della loto vita in carcere? Ho approfondito poi queste mie osservazioni con Paolo Siani, il fratello di Giancarlo».
Il titolo del romanzo potrebbe far pensare che si tratti esclusivamente del rapporto tra una madre e un figlio, invece si parla anche dell’assenza della figura paterna. È così?
«Certamente. L’assenza dei padri rappresenta un aggravante per queste vite così disagiate. Mi sono chiesto : cosa comporta la mancanza della figura paterna nella formazione di un bambino? Spesso i padri non sono amorevoli perché vittime a loro volta di madri anaffettive o autoritarie. Nel romanzo ci sono molti personaggi maschili che non sono capaci di esternare il loro affetto per i figli e proprio per questo diventano rabbiosi e, in alcuni casi, anche violenti».
Diego è un bambino sano, nonostante le prove a cui lo ha sottoposto la vita e si fida degli altri. È impossibile non commuoversi durante la lettura del romanzo.
«Diego è nato in un quartiere ad alta concentrazione criminale, è stato bullizzato ed inseguito dal branco. Ed ecco il paradosso: negli ICAM questi bambini possono finalmente avere una visibilità e persone che si occupano di loro quali psicologi, dottori, preti, volontari. Diego piano piano inizia a fidarsi mentre la madre ha il timore che il bambino diventi debole, impacciato, che non sappia costruirsi una corazza contro il male. Diego ha un’evoluzione ed anche la madre dovrà fidarsi».
È possibile quindi che quel posto di reclusione temporanea diventi un luogo di redenzione?
«Paradossalmente sì. Non è ammissibile che un bambino viva in un carcere ma la domanda di fondo è questa: fuori da questa realtà protetta cosa troverebbe un bambino? Onestamente non riesco a rispondere su cosa sia meglio. La politica dovrebbe maggiormente interrogarsi su questi temi e trovare delle soluzioni condivise. Ma mi rendo conto che non è semplice».
Possiamo dire che questo romanzo è frutto di un impegno civile?
«Il libro nasce anche dalla mia rabbia, dal rendermi conto che tutto si è velocizzato e non si presta la giusta attenzione per risolvere certi problemi. Soprattutto non si dà più ascolto a nessuno, soprattutto alle esigenze dei bambini. Penso che lo scopo primario della letteratura sia proprio questo: puntare i riflettori su realtà poco note, poco conosciute, per dare voce a chi non ha la possibilità di esternare i propri pensieri. In questo senso forse il mio romanzo nasce da un impegno civile».
Nel romanzo ci sono molti personaggi e si parla anche di affido temporaneo. Ce ne vuole parlare?
«Molti personaggi descritti nel romanzo sono prigionieri quasi quanto le donne che vivono la realtà carceraria. È il mio primo romanzo scritto in terza persona e questo mi ha dato la possibilità di analizzare sia i personaggi che il contesto da nuovi punti di vista. Personalmente provo sempre imbarazzo per la festa del papà o per la festa della mamma perché il mio pensiero va a tutti coloro che non lo sono o che lo sono fuori dal ruolo istituzionale. L’affido, anche temporaneo potrebbe rappresentare una soluzione ma onestamente non lo so».
La maternità nel romanzo è vista come una responsabilità. Può nascere un buon rapporto con le altre mamme?
«Sicuramente, non dobbiamo mai dimenticare che prima di essere detenute, queste donne sono madri ed anche tra litigi e scontri può nascere tra loro una solidarietà per il bene dei figli. Nel romanzo c’è una bambina di nome Melina che colleziona parole belle tra cui la parola papà. Melina ha soli 5 anni ma ha visto ed ascoltato cose inimmaginabili eppure ha mantenuto una sua purezza, un suo candore. Bisogna dare voce a questi bambini, alla profondità dei loro pensieri. I bambini anche nelle situazioni più difficili si salvano con la fantasia, con i giochi. Abbiamo il dovere di contrastare la dispersione scolastica. La scuola deve operare al meglio sul territorio. Deve diventare un polo culturale, un centro di accoglienza e non un posto dove parcheggiare i nostri figli».