Lo Sconosciuto del Lago è il “film-scandalo” di Alain Giuraudie che ha conquistato la 66esima edizione del Festival di Cannes vincendo il premio per la Miglior Regia nella sezione Un Certain Regard e la Queer Palm (premio indipendente, nato nel 2010, assegnato ai film a tematica LGBT). Un film d’autore che mescola i generi (thriller, commedia, dramma) e che in Italia è stato vietato ai minori di 18 anni per le scene di sesso omosessuale trattate con l’audacia del cinema hard. A onor del vero, le scene più hot sono trattate in modo leggero e non sono affatto morbose. È lo stesso regista, infatti, a dire: «La questione è che dobbiamo lasciare il sesso esplicito al cinema porno, oppure gli atti sessuali possono essere filmati con lirismo e poesia? Penso che la seconda ipotesi sia possibile e che il sesso al cinema non debba più appartenere al solo genere della pornografia». In effetti, come affermava la grande danzatrice-coreografa Marta Graham, lo strumento con cui si vive è il corpo. Esso è il mezzo tramite il quale manifestiamo la vita, la morte, l’amore e, quindi, il sesso che, a questo punto, dovrebbe liberarsi finalmente dai vincoli ed essere espresso senza più il codazzo inutile di scalpore aggiunto. Tutta la storia si svolge sulla sponda di un lago, moderno Eden fatto di sole, nuotate e sesso a gogò. Qui, il discreto e giovane Franck (Pierre de Ladonchamps) incontra la saggezza quasi paterna di Henri (Patrick D’Assumçao) e la passione travolgente nelle sembianze dell’aitante e molto pericoloso Michel (Christophe Paou). Pericolo serio che Franck vede ma che si lascia alle spalle pur di stare con quello che rimarrà un totale sconosciuto. Già Apuleio, nella favola di Amore e Psiche, ci mostra i pericoli a cui si incorre se si vede fin troppo bene il proprio amante. Si deduce che nell’amore, se ci si vuole fidare e affidare ad una persona, occorre oscurare e mettere da parte una fetta razionale del nostro cervello. In questo caso, però, si va oltre. Il sesso è consumato velocemente, è tutto molto forte, convulso e sfuggente. Nessuno si consocie veramente e le inquadrature (molto bella la fotografia di Claire Mathon), sempre sullo steso luogo (Andy Warhol docet) aumentano questo senso di claustrofobia e di noia. Un piacere “senza scampo” che va da solo – quasi come se si marcasse il cartellino – anche con una chiara e tragica scomparsa di un ragazzo che al lago tutti conoscevano, anche con la polizia che indaga, anche con la presenza di un serial-killer. Franck ama, vuole disperatamente amare e si benda gli occhi, li chiude a discapito di se stesso e di una comunità, quella gay, che non si vuole bene abbastanza, che si denigra, abbandona i propri fratelli per qualche centimetro di carne eretta. È sicuramente solo una fetta di questa comunità ma forte, viva, che si fa vedere e attraverso la quale tutti noi omosessuali siamo passati.
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