Voce e suono perfettamente miscelati quelli della folk-singer, Livia Ferri, musicista trascinante anche dal vivo con il colore e il calore delle sue vibranti interpretazioni. Nel suo album di debutto, Taking Care (BlackBackCalico), un meraviglioso documento di uno stato d’animo in undici brani, Livia Ferri non è avulsa alla realtà che la circonda, penetra, indaga, scruta con acutezza alcuni momenti della sua vita.
Tre videoclip tratti da Taking Care: Hopefully, Cassius Clay e Pavlov, mentre, Homesick, fa parte della colonna sonora di “Una Donna per Amica” di Giovanni Veronesi.
In questo periodo è in tour, ma è anche impegnata a scrivere le nuove canzoni per il suo secondo album, che spera di registrare a fine estate prossima. Da qualche giorno ha ricevuto un riconoscimento, partecipando alla seconda edizione del Roma Folk Contest con “Cassius Clay”, una doppia vittoria per Livia Ferri, anche per suo padre, scomparso durante la realizzazione del suo album, contentissima di aver vinto con questo pezzo dedicato a suo padre.
Da quanto tempo suoni la chitarra?
«Sono quasi vent’anni, ne ho 28, mi è stata regalata quando avevo nove anni. Mio padre la suonava, e, pensò che fosse una buona idea regalarmela, ovviamente, non l’ho suonata tutti i giorni della mia vita, però cominciai subito a orecchio, e poi pian piano ho studiato.»
L’emissione stridente sulle corde della chitarra, lo struscio, è una tua particolarità, un tuo marchio di fabbrica?
«È abbastanza casuale in realtà, io non sono una pulita, nel senso che non sto troppo a rendere il suono più bello di quello che è, mi piace molto mantenere tutto quello che esce fuori sul momento, probabilmente senti più struscìi del solito, perché non li tolgo.»
Quindi è una tua scelta, ma non credi che potrebbe infastidire?
«Io do molto importanza all’immediatezza, senza fare razzismi di generi musicali, a me il pop piace molto,quello che non mi piace del pop è come suona, cioè suona troppo pulito per i miei gusti, suona irreale, ormai è tutto così appiattito e, mi piace tanto il folk, non tanto come genere anche se mi piace molto la cultura che c’è dietro, il pensiero, però mi piace il fatto che non si preoccupa di impacchettare troppo quello che si dice e si fa.»
Quando hai deciso che doveva diventare la tua professione?
«In due momenti, ho deciso e riconfermato, stavo al liceo, stavo uscendo e sapevo che non avrei voluto studiare altro, e quindi mi dissi che mi sarei scritta a una scuola, perché io sono molto pigra e ho bisogno che qualcuno mi sproni, e, dopo un bel po’ di live, in cui mi sentivo molto male, perché avevo paura, non volevo stare là, ma a un certo punto non so come sia successo, mi sono sentita bene, suonando, ho imparato a stare con il pubblico e quindi mi sono decisa di seguire questa strada.»
Hai iniziato prima con i live…
«All’inizio facevo le solite cose, tipo cover band, poi ho iniziato un po’ a scribacchiare in quel gruppo, e dopo che sono uscita dagli studi di musica e incoraggiata da varie persone, anche i professori, ho iniziato a scrivere, e nel frattempo continuavo a fare i live, ma questa rivelazione dei live è arrivata circa sei mesi fa.»
Hai scelto di scrivere in inglese, come mai?
«Perché la musica che ho sentito è sempre stata musica cantata in inglese, e mi è rimasta in testa quel tipo di metrica, in italiano, per farla quadrare, dovrei riempirla di cose che non mi va di metterci, quindi, per ora è così, anche se sto provando a scrivere testi in italiano, ma con un po’ di difficoltà.»
Undici brani fanno parte di Taking Care, ma fra quanti hai scelto?
«Ne ho tenuti fuori un paio, altri li ho scritti in corsa, mentre stavamo registrando, uno era Cassius Clay, perché mi mancava veramente poco, qualche frase.»
Con Taking Care cosa hai voluto esprimere?
«Taking care significa prendersi cura, e volevo dare indietro a tutte le persone che, durante la mia vita, si sono prese cura di me. È un ringraziamento, infatti, ci pensavo in questi giorni, parlando con un amico, che quello che ne esce fuori, a distanza di due anni, è un disco tenero, non allegro, tenero, e volevo dare un po’ di questa tenerezza indietro alle persone.»
Cassius Clay, il testo non riporta al titolo…
«Cassius Clay è un testo che ho scritto per il mio papà, morto due anni fa circa, l’ho scritto nell’ultimo mese di vita, e l’ho chiamato così, perché lui era molto affezionato a questo personaggio e durante quel periodo lo tirava spesso fuori per farsi coraggio, per cercare parallelismi tra il combattere sul ring qualcuno e la malattia.»
Il video è un’altra cosa parallela, tre cose differente titolo della canzone, testo e video…
«La storia del video l’avevo già in mente, ma se uno conosce questa storia, vedere il video credo sia abbastanza naturale comprenderlo, ci sono delle immagini con dei bambini, con me da piccola e io da grande. I video, con me da piccola e mia sorella, furono girati da mio padre e, mi piaceva rivivere quei momenti, facendo vedere lo sguardo di mio padre su di noi, e ricordando poi il mio sguardo su quei posti quei momenti.»
Di cosa parla, Homesick, brano che fa parte della colonna sonora del film di Veronesi, Una donna per amica…
«Homesick parla della perdita di sicurezza che si ha da bambini, parla del passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, nel momento in cui ti svegli e dici non è più così, sono sola. È un capriccio quella canzone, il capriccio di dire voglio tornare là, ma non si può.»
Mentre Pavlov è dedicata al Premio Nobel per la medicina…
«Ivan Pavlov era un medico e fisiologo, che scoprì il riflesso condizionato, cioè lui dava da mangiare a un cane tutti i giorni, prima suonava una campanella, e dopo un po’ si rese conto che suonando la campanella il cane aveva fame, anche se aveva mangiato un attimo prima. Studiato, riportato e ampliato in psicologia è stato importante questo passo, tutto questo, per dire che ho riflettuto su alcuni momenti in cui mi capitavano delle cose che non capivo, alla vista di persone a cui voglio bene, che ho sempre frequentato, anche familiari, mi venivano fuori delle cose che non capivo, vedevo mia madre e piangevo, istintivamente, subito, e, a questo riflesso condizionato, ho cercato di capire qual era la mia campanella , non l’ho capita, e, Pavlov la canzone parla di questo, dell’accettare e accettarsi, accettare i propri limiti, i propri difetti, perché è bello e giusto è un dovere prendersi cura e lavorare su se stessi, però è anche un dovere lasciarsi liberi di essere quello che si è.»
Il video di Pavlov è molto particolare…
«Pavlov è un testo difficile da realizzare in video, è stato complicato, difficile da focalizzare, da capire bene di cosa si sta parlando, e renderlo in video era parecchio difficile in poco tempo, perché abbiamo avuto una giornata per girarlo, ho lavorato con il regista, Marco Arturo Messina, che è stato bravissimo, alcune cose le abbiamo decise lì per lì. In questo video volevo, con il personaggio che interpreto, dare questa avversione dei personaggi, cioè io sono l’altra metà di ogni personaggio e sono quella metà che reagisce e che fa reagire in modo incontrollato e a volte sbagliato. E i personaggi quando interagiscono con me hanno paura, finché non mi accettano e non accettano questa parte di loro e non hanno più paura.»
Coltivi qualche hobby?
«Mi piace disegnare molto, riesco a farlo poco ultimamente, disegno visi e, ho cominciato un mio progetto, personalissimo e intimissimo, di ritratti di amici, alcuni dei quali, secondo me, hanno dei visi importantissimi. Poi quando disegno, ancor di più che con la musica, mi immergo e mi estraneo completamente.»