L’Ensemble 33 di Sergio Majocchi all’Atrio delle Trentatré, nell’omonimo monastero delle suore cappuccine situato nel Centro storico della città propone Il canto antico di Napoli un bel concerto di musica napoletana.
Il gruppo, formato dalle voci di Majocchi e di Stefania Parisi ed Antonio Parisi e dagli strumenti di Guido Pagliano (flauto e viola da gamba), Gabriele Rosco (chitarra barocca) e Gabriele Pagliano (calascione e percussioni),
ha proposto una “passeggiata musicale dal ‘500 al ‘700 napoletano, tra villanelle, sonate e racconti”.
È stata una buona occasione quella offerta dall’Ensemble 33, per ascoltare brani rari e raffinati, benché non certo un’opportunità unica, in una città che è pur sempre quella di Roberto De Simone e della Nuova Compagnia di Canto Popolare e che poi, in decenni più recenti ha conosciuto, soprattutto grazie ad esperti come Antonio Florio e Pino De Vittorio, una riscoperta pressoché sistematica del proprio repertorio musicale antico, soprattutto vocale.
In effetti si è cantato molto, e sempre abbastanza bene, anche durante questo concerto, ad una e a più voci, seguendo sostanzialmente la falsariga di un repertorio lungamente etichettato, tra Cinque e Seicento (e con estreme propaggini perfino proto-settecentesche), con la dicitura di “villanella”, o “villanesca” che dir si voglia.
Il che ha dato anche modo, perlomeno a chi scrive, di riflettere sul fatto che la questione della genesi della canzone napoletana “classica” è tuttora aperta e che il vecchio topos, tra lo storiografico ed il mitologico, secondo cui essa derivi appunto dalla villanella, topos risalente probabilmente a Salvatore Di Giacomo e ancor oggi vigente,
andrebbe sottoposto ad accorte e serrate verifiche.
In ogni caso storicamente il fenomeno ebbe poco (ma non proprio nulla, come dimostrano le frequenti allusioni del Basile o di Giulio Cesare Cortese) di autenticamente “popolare”, poiché,
come ha ricordato lo stesso De Simone in un suo volume (La canzone napolitana, Einaudi, 2017, pp. 23-24), esso fu promosso e diretto da personaggi colti afferenti alla “nobiltà di seggio”, e
tra le principali cause del gran successo arriso al genere, dalla metà del 500 in poi, vi fu appunto l’attenzione concessagli dalle accademie aristocratiche contrapposte alla corte vicereale, e
quella di viaggiatori stranieri attratti dall’esotica espressività locale o di compositori europei di fama che allora transitavano per la città.
Uno di questi, e non certo il minore, fu il fiammingo Orlando di Lasso, che fu a Napoli per pochi anni (1549-1551), sufficienti tuttavia per restarne affascinato dal “melos” e dalla parlata locale, e che qui si affidò – in modo interessantissimo da indagare – al mecenatismo di Giovan Battista d’Azzìa marchese di Laterza (o della Terza), “grande di Spagna” e poeta dilettante, ma anche principale animatore di quella “Accademia dei Sereni” che,
prima d’essere stroncata dal viceré anche perché sospettata di eresia, fu un’autentica fucina di talenti artistici e segnatamente
musicali:
insomma, uno degli ambiti maggiormente indiziati di aver promosso la cultura della “villanella” (un altro forse fu la cappella musicale della Santa Casa dell’Annunziata, dove operava il maestro Gian Domenico Del Giovane da Nola).
Meno forse ha a che fare con tutto ciò il celebre “Canto delle lavandaie del Vomero”, eseguito ben due volte durante questo concerto, a motivo della sua pretesa (ma secondo noi fittizia)
antichità, addirittura medievale (in ogni caso l’armonizzazione, con cui solitamente il canto è riproposto, è senz’altro roba sette-
ottocentesca).
Molto pertinenti, invece, erano le varie pagine strumentali pure eseguite (e molto bene, in verità), tratte dal repertorio di “basse danze”, “tenori” e “ricercari” che furoreggiava presso la corte vicereale, e che era fortemente
indebitato con la Spagna (altre danze più tipicamente locali, “moresche”, “catubbe”, “sfessanie”, ecc., completavano il quadro).
In questo senso, la proposta di brani di Diego Ortiz, Antonio Valente, Fabrizio Dentice ed Andrea Falconieri, non soltanto faceva da esatto contraltare al repertorio “villanesco”, ma costituiva uno spunto di interesse supplementare per l’ascoltatore, anche per quello più smaliziato ed avvezzo a queste musiche provenienti dal mondo, affascinantissimo, della nostra
antica storia locale.