Dopo il grande successo della prima il giorno 5 febbraio, le “Bestie di scena” della drammaturga palermitana Emma Dante continueranno a prendere il possesso del palco del Teatro Bellini fino al 10 febbraio.
Lo spettacolo comincia – attraverso un pirandelliano escamotage – nel momento stesso in cui gli spettatori entrano in sala e ritrovano gli attori sul palco, a sipario aperto e luci accese. Li si scorge a riscaldarsi insieme, con una serie di esercizi di stretching in cui si alternano man mano fino a diventare un insieme danzante, unitario, impersonale e senza un’identità. Gli attori cercano, nel corso della pièce, di creare il proprio personaggio attraverso movimenti, danze, urla, acrobazie, litigi in dialetto e combattimenti, in un turbine di eventi a rappresentare il processo e il modo in cui l’essere umano nasce, cresce, forma il proprio essere e la propria personalità. Prima di cimentarsi nell’affrontare queste prove, nelle quali vengono aiutati da molteplici oggetti di scena – come bambole, micce, scope, noccioline, acqua, palloni, carillon, una spada-, le bestie di scena devono svolgere la più terribile, durante la quale decidono di denudarsi. Gli spettatori vengono spiazzati di fronte a quella nudità che, nonostante non abbia voce in quanto gli attori non parlano quasi mai, urla invece tantissime cose, provoca e mette in difficoltà lo sguardo e il pensiero di chi guarda. Tant’è che le bestie decidono di iniziare a coprirsi con le mani, fino ad abbandonare, dopo qualche minuto, tale tentativo, lasciando lo spettatore ad interrogarsi circa l’esistenza di quei personaggi e la loro motivazione.
È in questo senso che lo spettacolo può intendersi come un unico grande esercizio, per gli attori ma anche per gli spettatori. Questi ultimi devono, infatti, liberarsi dal peso del giudizio e del peccato, presenti nei loro occhi, ed avvicinarsi un po’ di più, almeno col pensiero, alla condizione bestiale dell’essere umano, così irriverente, provocatoria, grottesca, così nuda. Gli attori, invece, devono liberarsi da ogni senso di vergogna e lasciarsi guidare prima da atteggiamenti animaleschi, poi da attimi di movimenti meccanici e poi, ancora, da emozioni forti, quali la rabbia o l’amore, tanti moti e sensazioni che vanno a fondersi e concatenarsi in un ritmo sempre più frenetico. Nel finale della pièce, durata 70 minuti, gli spettatori restano di fronte ad un palco vuoto, a confrontarsi con ciò che le bestie di scena hanno lasciato: un mucchio di vestiti e di oggetti di scena ad urlare la presenza – e l’assenza insieme – di quei corpi.
Come si legge dalle note di regia: «I resti ammucchiati sul palcoscenico, alla fine del processo di “bestie di scena”, mi lasciano un senso di desolazione e di abbandono che mi riporta ad una frase di un libro di Giorgio Vasta, Absolutely nothing: “Non mi interessa il tempo dei bombardamenti ma quello che comincia subito dopo, a guerra finita: un tempo di procrastinazioni e istintiva inadempienza a trasformare i progetti in azioni. Un tempo in cui la distruzione si è fatta oblio. Le macerie devono restare non per ricordare i bombardamenti, ma perché descrivono tutto ciò che da allora non è accaduto. Le macerie come sintesi delle occasioni mancate”».