Al Teatro Piccolo Orologio di Reggio Emilia ieri, 25 febbraio 2023, è andato in scena “L’Atlante linguistico della Pangea”. Sarò onesta: ho scelto questo spettacolo riponendo altissime aspettative in due delle parole comprese nel titolo. Atlante e Pangea, infatti, hanno rievocato indimenticabili lezioni di geografia che erano ancora lì, in attesa, dalle elementari. Ho ricordato quanto mi avesse affascinato all’epoca la “deriva dei continenti”, ho riportato al cuore la maestra che cercava e – soprattutto – trovava le parole giuste per spiegarla a noi bambini: ‘immaginate delle zattere galleggianti vicine vicine’, ‘immaginate si spostino lentamente e che ognuna prenda una sua direzione’. E le zattere erano davvero davanti ai nostri occhi. E il mondo non era ancora alla deriva.
In scena Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini. Cinque attori vestiti da esploratori. Cinque esploratori per cinque continenti. Il pubblico viene accolto con un’espressione bantu: Ubuntu. Una persona è una persona solo attraverso gli altri. Inizia così un viaggio attraverso tradizioni, traduzioni e tradimenti. Non è possibile tradurre senza tradire, ma è ugualmente necessario provarci.
I cinque attori sono adesso i cinque sensi che accompagnano le vere protagoniste di questa storia: le parole. Ed avviene così una strana magia: è possibile toccarle con gli occhi, tutte … ma allo stesso tempo ognuna risulta un’ombra solida che sfugge alle mani. Ogni concetto è prezioso e fragilissimo, i vocaboli si trasformano in vere e proprie bolle di sapone. In sala si avverte una strana quanto meravigliosa tensione emotiva, una specie di ritorno alle origini. Per una volta ogni singolo spettatore sembra nuovamente connesso a qualcuno e non a qualcosa. Il tempo scorre lento lasciando fuori – almeno per un po’- un mondo che va sempre più veloce. Ed ecco che quel qualcuno a cui ci si ritrova connessi è l’origine di tutto: la lingua. E questa connessione così profonda fa male al cuore, soprattutto quando dal palco vengono condivise profonde riflessioni di parlanti di lingue in via di estinzione. Ogni volta che muore l’ultimo parlante di una lingua muore una precisa visione del mondo, l’ultima espressione di una coscienza unitaria di popolo.
Il problema centrale però è che non stiamo solo perdendo una lingua al giorno, stiamo perdendo a poco a poco la capacità di parlare, di capirci e farci capire. Non riusciamo più a dire cose complesse attraverso parole semplici e oneste. Abbiamo permesso che le parole fossero rimpiazzate da emoji e nuovi moderni pittogrammi ed è per questo motivo che, di fatto, non ci capiamo più. Perdere parole vuol dire perdere capacità emotive.
“L’Atlante linguistico della Pangea” fa parlare le lingue ma – soprattutto – porta in scena un senso di vuoto dovuto alla perdita delle lingue stesse. Questa pièce teatrale è uno degli ultimi baluardi di pazienza, costanza, indulgenza, sensibilità e, soprattutto resistenza. Ho preso parte a questo spettacolo ripensando a quando vivevo una passione poco corrisposta per la geografia, sono tornata a casa riflettendo su come usare questa lettera d’amore donataci dal collettivo Sotterraneo, una lettera destinata alla responsabilità umana scritta da chi cerca ancora (riuscendoci in maniera brillante) di esprimersi a parole.