Il 24 ottobre 2013 è arrivato nelle sale italiane il film “La vita di Adèle”. Una pellicola come tante, se non fosse che questa ha vinto la Palma d’Oro a Cannes facendo parlare di sé e delle sue due protagoniste in tutto il mondo. E difatti, a partire da Steven Spielberg, finora tutti hanno definito questo lavoro come il nuovo miracolo della settima arte.
Ebbene, forse il regista Abdellatif Kechiche poteva davvero regalarci un’opera meravigliosa, la verità però è che non ci è riuscito.
Alla fine del film c’è un sentimento su tutti che prevale: l’insoddisfazione.
Potenzialmente, infatti, il capolavoro si intravede: in alcune scene ci si dimentica del tutto che sullo schermo si sta proiettando una storia saffica. Il regista mette meravigliosamente in risalto l’universalità dell’amore, con i suoi drammi, le sue gioie e le sue difficoltà a prescindere dal resto. Perfette le due attrici Adèle Exarchopoulos e Léa Seydoux (che non a caso hanno ricevuto una menzione speciale a Cannes), incredibili i loro dialoghi sussurrati, i loro sguardi rubati e l’estrema naturalezza dei loro sorrisi carichi d’amore.
Per tutti questi motivi, ecco che ci sono dei momenti durante la visione del lungometraggio in cui risulta facilissimo pensare che il film sia bellissimo.
Ma poi il regista esagera e rovina tutto. Un attimo prima cerca con la telecamera di catturare i pensieri più profondi di Adèle, un attimo dopo, inspiegabilmente, con quella stessa macchina da presa inizia a raccontarci i suoi desideri personali, mettendo da parte quelli della protagonista.
Nelle scene di sesso tra Adèle ed Emma, Kechiche da incredibile cineasta si trasforma in uomo invadente. I rapporti tra le due non sono offensivi, sia chiaro, ma esageratamente lunghi e inutilmente dettagliati.
A mio avviso l’amore viene banalizzato. Adèle è alla sua “prima vera volta”, desidera Emma con tutta se stessa, ma questo non esclude le sue paure, la sua inquietudine interiore.
Nella grafic novel “Il blu è un colore caldo” da cui è tratto il film, trascorrono molti mesi prima che le due ragazze si decidano a donarsi completamente l’una all’altra. Nella pellicola, nonostante le tre ore a disposizione, i mesi diventano pochi giorni: è come se fin dall’inizio si pensi principalmente a riprendere l’amplesso in tutta la sua interezza più che tutto quello che accade prima. Nessuno spazio viene lasciato all’immaginazione e nemmeno alla musica. Inoltre, tutti i rapporti tra Adele ed Emma sono privi di colonna sonora, scelta a mio avviso priva di gusto.
Forse il regista tunisino voleva, attraverso questo intreccio di corpi nudi, rappresentare un desiderio selvaggio e tenero, uno scambio di carne e pulsioni che avviene in maniera estremamente primitiva. Un amarsi senza tempo, dove il letto diventa un ottimo rifugio dal mondo esterno e da tutto quello che potrebbe accadere domani.
La verità però è che Kechiche è riuscito a fermare il tempo tra le due amanti, ma non quando lo voleva di più.
Ci sono due scene che tra tutte porterò nel cuore e in entrambe le protagoniste sono vestite. Nella prima le due sono al parco, in procinto di salutarsi dopo il primo pomeriggio trascorso insieme. Il trasporto è evidenziato dai loro occhi e da ogni sfumatura che traspare dal viso. Il bacio è nell’aria, trascorrono secondi lentissimi in un’immobilità palpitante in cui tutti non possono far altro che aspettarsi un’esplosione di sensi ed emozioni. Ma quest’ultima non arriva: Emma bacia prudentemente Adele sulla guancia e tutto si conclude con il prolungarsi dell’attesa e del piacere.
Nella seconda scena è trascorso molto tempo, le due donne si rincontrano in un bar a tre anni dalla loro rottura. Sono entrambe imbarazzate, non riescono a parlare molto. Sussurrano, proprio come ai primi incontri, quando stare insieme era forse “un po’ troppo bello”. La magia di questa scena è tutta in quello che non dicono, in quello che non fanno. Il dolore le attanaglia e le riempie, l’amore che ha resistito al tempo le svuota e sorprende. Ed ecco che avviene l’incanto: lo spettatore si rinnamora e, contemporaneamente, soffre per l’amore perduto.
Poteva essere un capolavoro, ma l’uomo Kechiche ha prevalso sull’artista. L’ossessione dettagliata per i corpi delle protagoniste ha vinto sul resto.
Immeritata Palma d’Oro al film, ma legittime le menzioni alle due attrici che, nella loro limitata libertà, hanno raccontato in silenzio una storia diversa da quelle presentataci dal regista.
Ed ecco che, negli occhi di Adèle e Léa abbiamo potuto ammirare la limpida versione della “Vita di Adèle”: la crescita di un’adolescente che fatica ad accettare la propria omosessualità anche dopo anni di vita con Emma, la trasformazione di una maestra nata in una famiglia borghese e improvvisamente proiettata in una comunità di artisti LGBT, ma soprattutto la storia di una donna che per tutta la vita amerà sempre e solo quella strana ragazza dai capelli blu.
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