Federico Salvatore veste i panni di un Pulcinella in cui incarna tutta la sua napoletanità, un brigante intellettuale con invettive che fendono le coscienze buie, e imbastardite da una politica corrotta e dall’omertà della camorra.
Con due dischi di platino, 700mila copie vendute, un successo fin dalle sue prime apparizioni al Maurizio Costanzo Show, ospite fisso nel ‘95 al Festivalbar, una strepitosa partecipazione al Festival di Sanremo ’96, amato dal fu Gianfranco Funari, Federico Salvatore nel suo ultimo spettacolo, Se io fossi San Gennaro, che sta portando in giro per l’Italia, propone le canzoni del suo ultimo album, uscito a ottobre scorso, Pulcin’hell, suo quattordicesimo album, in cui accende passioni, umori e delusioni su un Paese alla deriva. Di recente abbiamo visto Federico Salvatore nei panni di Raimondo di Sangro, principe alchimista di Sansevero protagonista de La voce del sangue di Francesco Afro de Falco, cortometraggio girata in pellicola prodotto da ASCI scuola di cinema e Libera scena ensemble.
Storie molto crude e dure nel suo ultimo cd, Pulcin’hell… ma diciamoci la verità lei si è tolto anche qualche sassolino dalle scarpe…
«Mi sono tolto il sassolino qualche decennio fa, quando pubblicai, Se io fossi San Gennaro. Così come ho scisso per anni Federico e Salvatore, poi è caduta la “e” congiunzione, e sono diventato Federico Salvatore. Io ho sempre guardato la mia città, Napoli, con gli occhi dell’artista, aspirante attore fin da bambino. Questo grande palcoscenico mi ha dato quell’humus di comicità che rientra un po’ in tutti i napoletani e con il quale sono arrivato alla grande popolarità negli anni ‘90, con il famoso Azz, che scalò le classifiche, ma, in quel momento, c’era una scelta fondamentale, o rimanere a Napoli o il fujetevenne di Eduardo, perché sicuramente lasciando la mia città, trasferendomi a Roma o Milano, probabilmente oggi Federico Salvatore, sarebbe una realtà diversa. Ma non ho mai accettato quest’idea, ho sempre visto il Fujetevenne, come una rassegnazione, una sconfitta, anche se purtroppo Napoli non ti offre delle opportunità artistiche. Restando Napoli ho cominciato a guardarla con gli occhi del napoletano. E ho visto Napocalisse, una realtà diversa, così nasce la seconda parte del Federico Salvatore meno televisivo, meno audience, ma un tantino più sapiens.»
Infatti, in Napocalisse, racconti del degrado sociale, intellettuale e culturale di Napoli e del Sud…
«Io guardo Napoli, ma il problema è l’Italia oggi, non è solo il Sud. Politicamente siamo oramai alla frutta.»
Il costume di Pulcinella è quello che più sente di indossare in questo periodo, come denuncia nei confronti di una realtà così difficile?
«Ho sempre visto Pulcinella come l’emblema del napoletano, però è un Pulcinella stanco. Nel 2009, ho pubblicato un disco, Fare il napoletano stanca, in cui dicevo, “per imporre un’idea, il napoletano deve fare il simpatico”, non è vero che Napoli è costretta a vendersi sempre attraverso la simpatia, la ruffianeria. È arrivato il momento in cui un napoletano, come qualsiasi altro italiano, deve essere apprezzato per quello che probabilmente è, e, per quello che riesce a trasmettere agli altri. Ho scelto Pulcinella, non solo come simbolo. Ho giocato, memore della parentela con il famoso pulcinella inglese, Mr Punch, un pulcinella molto satirico, con questo gioco di parole, italiano e inglese, Pulcin’hell. Ho precipitato la nostra maschera nell’inferno, scegliendo come maestro guida, un po’ come Dante con Virgilio, due grandi riferimenti, Giorgio Gaber e Fabrizio De Andrè. Gaber mi ha dato l’intuizione del teatro-canzone, non penso più alla canzone radiofonica o strettamente commerciale, ma a una canzone finalizzata al teatro, che mi dà la possibilità di fare dei preludi, dei monologhi in prosa per introdurle. La poesia mi arriva, invece, da Fabrizio De Andrè, che ha sempre amato Napoli in particolare, ed è lui l’accompagnatore in questo inferno, che mi ha ispirato una canzone molto particolare in questo Pulcin’hell, L’inno di Papele, una risposta all’Inno di Mameli. È una riscrittura di Desamistade, una parola sarda che vuol dire inimicizia, sempre esistita, purtroppo una connotazione del nord e del sud, una lacerazione di questo paese, ma siamo uniti solo durante le partite di calcio.»
Cosa ne pensa dei suoi fan che l’accostano ai nostri grandi cantautori, appunto. Come Gaber, de Andrè, Guccini…
«La televisione l’ho sostituita con la rete internet, facebook, youtube. Ho un grande sostegno che mi arriva dai fan. È chiaro che la televisione ti dà una popolarità e una visibilità diversa, però dal 2001, da quando ho scritto Se io fossi San Gennaro, ho deciso di portare in teatro una faccia diversa, naturalmente senza rinnegare quello che sono stato, infatti, il mio ultimo spettacolo vive anche dei momenti legati al passato, la Ninna Nanna, l’Incidente, Donna Amalia, però, volevo anche dimostrare, soprattutto per essere sincero e me stesso, che c’era un altro tipo di cantautore. Credo che oggi il teatro sia il mio habitat più congeniale a quello che faccio, e sicuramente più duraturo rispetto alla televisione, che ti dà una grande popolarità, però poi finisce, non puoi per tutta la vita fare Azz.»
Con questo cambiamento repentino non ha avuto paura di tradire i fan?
«Non credo. È chiaro che è avvenuta una selezione naturale del pubblico. La televisione ti impone al pubblico mentre quello teatrale è quello che ti sceglie, la gente che paga per assistere allo spettacolo significa che ti ha scelto, questa è la soddisfazione. Ma io ho lasciato la grande curiosità, soprattutto ai miei vecchi fan, e, oggi mi diverte pensare che canzoni come Azz, Il peto nel regno di Napoli, sono diventati dei pezzi cult tra i giovani.»
Ha avuto delle ripercussioni in questi anni, anche subito dopo Se io fossi San Gennaro?
«Ripercussioni no, ma è chiaro che qualche porta mi è stata chiusa, soprattutto quelle televisive. Ho perso televisivamente, ma ne ho guadagnato in crescita, non in termini economici, ma artisticamente ho avuto delle grandi soddisfazioni. »
Questo coraggio com’è nato?
«Non lo so. Amo Napoli e penso di avere una cultura napoletana settoriale, appresa da ciò che stato pubblicato dal Duecento a fine Ottocento, dal punto di vista editoriale e, godo di una libreria di circa 5mila volumi, e, nell’ultimo spettacolo faccio sempre una battuta “ho chiuso gli indici di ascolto della televisione, però ho aperto gli indici dei libri perché leggo”. Soprattutto per ritrovare le radici, io sono napoletano e questa città ha un patrimonio culturale, artistico, musicale che forse i napoletani non sanno o non ricordano. La mia sfida è di sensibilizzare e ripristinare questa memoria storica a tutti quelli che mi ascolta.»
E la canzone, Il Monumento, racchiude in pieno quello che stai dicendo…
«Esattamente, ti vedo preparato… Vedo che hai studiato…»
Parliamo dell’invettiva che fai in ‘O PALAZZO…
«Simpaticamente io denuncio un po’ il monte più alto che abbiamo in Italia, Montecitorio, però è volutamente il ritorno della rima in Azz, anche se azz non c’è, che è stato l’epiteto che mi ha dato fortuna e popolarità, e dopo quindici anni mi è venuta voglia di fare un altro pezzo con la rima tutta in Azz.»
C’è qualche definizione che le hanno dato e che lei ha fatto sua?
«Conservo nel cuore le parole del grande Giorgio Gaber, che incontrai prima che morisse. Fece uno spettacolo a Napoli, io stavo fra le prime file e lui mi riconobbe, m’invitò nel suo camerino e un monumento come Gaber, sempre di una grande umiltà nei confronti del pubblico, mi regalò delle parole bellissime,“Le scelte di dignità prima o poi gratificano molto più delle scelte commerciali”. Parole di sprono per quello che faccio, non ho seguito più i dettami del mercato.»
La musica può arrivare a scuotere le coscienze?
«Penso di sì. Ad esempio, Napocalisse, anche se musicalmente ci sono dei riferimenti classici, è molto moderno, mira un po’ al rap, all’hip-hop per avere un contatto. Oggi purtroppo in Italia sta funzionando molto il rap. Io non sono molto filoamericano, amo più le contaminazioni mediterranee, etniche che trovo più vicine alla mia cultura.»
Cosa pensa dei giovani d’oggi incollati al pc, sui social network, come bisogna scuoterli?
«Scuoterli è difficile, avevo una battuta, nel precedente spettacolo, un monito piuttosto serio, dicevo, pc uguale televisione, e dicevo, “accendere un televisore significa spegnere un bambino”.»
Vico Strafuttenza, un altro interessante brano dell’album Pulcin’Hell…
«È un toponimo di una strada immaginaria, che io ho definito l’antidoto filosofico del napoletano, una sorta di lassame fa ‘a ddio!, che cito nel ritornello, “tra nu debbet e ‘na scadenza, magna tu ca magne pure io, into ‘o vico da straffuttenza se fa debbet pure ddio!” E anche in questo brano c’è una riscrittura, se vogliamo, di Via della povertà di Fabrizio de Andrè, dove lui usa la Domenica delle salme, mentre io uso ‘a dummenica de paranze, “scorre l’uoglie ca mai fernesce, into ‘o vico da straffuttenza, quanna vongole ‘e fritt ‘e pesc”- Cioè anche nella povertà non deve mancare, come ritualità, il pesce la domenica. Napoli forse è l’unica città dove la domenica sono aperte le pescherie.»