Immaginate la piccola Sala Assoli del Teatro Nuovo di Napoli ubicata nel cuore dei quartieri spagnoli. Immaginate di attraversare vico Montecalvario e via Speranzella per ritrovarvi poi improvvisamente in Danimarca. Ecco, questo è in sintesi quello che è successo sabato 18 e domenica 19 aprile 2015 grazie alla compagnia napoletana The Hats che ha messo in scena in lingua originale una straordinaria rivisitazione dell’Amleto di William Shakespeare: “Wrong play, my lord”, or The mousetrap”.
Tre interpreti in scena (o dovrei dire quattro) per otto personaggi: Arturo Muselli, Alessio Sica, Margherita Romeo e il “baby actor” guidati dall’impeccabile regia di Ludovica Rambelli.
Parlare dello spettacolo, cercare di entrare nel merito della rivisitazione risulta, a mio avviso, mille volte più difficile dell’aver preso parte a un intero dramma in lingua originale.
La verità è che questo spettacolo, nonostante possa apparentemente interessare chi l’inglese lo parla come una seconda lingua o chi comunque lo pratica e riesce a capirlo, coinvolge tranquillamente anche un completo ignorante in materia.
Attenzione: non parlo solo di ignoranza linguistica, ma anche di poco interesse per questo tipo di rappresentazioni teatrali.
L’impresa più riuscita di The Hats è quella di aver veramente riportato in vita Shakespeare facendo avvicinare alle sue opere qualsiasi tipologia di persona.
La lingua inglese diventa essa stessa rappresentazione e luogo teatrale, ogni suono evoca un’immagine: a volte più nitida altre volte più sfocata. Le immagini, però, sono sempre presenti.
L’ “Amleto” si veste di abiti nuovi, o forse potremmo dire di cappelli sempre diversi. “Wrong play, my lord” colpisce, inoltre, per l’essenzialità della scenografia e la semplicità dei costumi.
Al posto del cambio d’abiti, troviamo un continuo mutamento timbrico e vocale. I tre attori sono fiumi in piena che investono ogni singolo spettatore con le loro improvvise trasformazioni.
Non c’è tempo per distrarsi durante lo spettacolo: la lingua inglese regala ai presenti un flusso continuo di attenzioni. Gli attori sbagliano e anche lo spettatore più distratto se ne accorge, iniziando a giocare e a godere delle gag. Vengono citati tanti piccoli frammenti delle opere più importanti di Shakespeare e ciò che forse penso sorprenda di più è l’attitudine di riconoscerle nonostante sia magari la prima volta in cui molti le ascoltano in lingua originale.
Quest’assoluta comprensione è dovuta tutta alla capacità degli attori di saper utilizzare il linguaggio del corpo, una specie di alfabeto muto che si basa su gesti senza parole.
In scena non ci sono solo otto personaggi, ma l’intera umanità racchiusa nella profondità degli sguardi dei tre attori e nelle loro continue improvvisazioni.
Il silenzio finale seguito dallo scroscio di applausi racchiudono alla perfezione la magia della compagnia The Hats che ha portato in scena uno spettacolo paragonabile a un fiocco di neve, uno di quei fiocchi così belli e rari che tutti avrebbero voluto durasse molto più di un’ora e un quarto.