Esce “L’ultimo lupo” il film capolavoro del regista Jean Jacques Annaud. Grazie ad un sapiente utilizzo del 3d le scene si amplificano in un mix di tensione e amore per un mondo che sembra ormai non appartenerci più. Ovviamente per arrivare all’ essenza dell’ opera bisogna assolutamente lasciarsi trasportare senza pensare a ciò che vi è al di fuori della sala cinematografica. Basta un attimo di distrazione e rischi di perderti magari una scena spettacolare. Non se ne vedono molti di film così in giro quindi, ne vale assolutamente la pena fare un tuffo in una realtà fatta di vite umane, di lupi, di vita nomade, semplice, ma con un cuore che a noi occidentali manca da un bel po’.
Chen Zhen, un giovane studente di Pechino, viene inviato nelle zone interne della Mongolia per insegnare a una tribù nomade di pastori. A contatto con una realtà diversa dalla sua, Chen scopre di esser lui quello che ha molto da imparare sulla comunità, sulla libertà ma specialmente sul lupo, la creatura più riverita della steppa. Sedotto dal legame che i pastori hanno con il lupo e affascinato dall’astuzia e dalla forza dell’animale, Chen un giorno trova un cucciolo e decide di addomesticarlo. Il forte rapporto che si crea tra i due sarà minacciato dalla decisione di un ufficiale del governo di eliminare, a qualunque costo, tutti i lupi della regione. Dal regista de “Il nome della rosa” e “Sette anni in Tibet” un altro grande capolavoro destinato a diventare un classico: L’ultimo lupo.
Nel cast: Shaofeng Feng, Shwaun Dou, Ankhnyam Ragchaa, Yin ZhuSheng, Basen Zhabu, Baoyingexige Regia: JeanJacques Annaud. Sceneggiatura: Alain Godard, Jean-Jacques Annaud, Lu Wei, John Collee. Musica: James Horner. Direttore della fotografia: Jean Marie Dreujou, AFC. Montaggio: Raynald Bertrand. Assistenti alla regia: Mathieu de la Mortière, AFAR- Xi Zi. Soggetto: Laurence Annaud.
INTERVISTA AL REGISTA JEAN JACQUES ANNAUD
Com’è cominciata quest’avventura che risale a circa 7 anni fa?
«Tutto è cominciato quando una delegazione di cinesi è venuta a incontrarmi a Parigi. Prima di tutto bisogna sottolineare che Il totem del lupo (edito da Mondadori) è stato un fenomeno letterario sconvolgente in Cina. Uscito nel 2004, il romanzo è scampato alla censura. Mascherato sotto uno pseudonimo, l’autore, era di fatto sconosciuto. Il suo libro autobiografico si svolgeva nella lontanissima Mongolia Interna, nel 1967, all’inizio della rivoluzione culturale. Le autorità non ci hanno fatto praticamente caso, se non fosse che la storia ha riportato alla luce molte cose.»
Il viaggio in Cina è stato fatto di nascosto oppure alla luce del sole?
«Quando sono atterrato a Pechino sono stato subito accompagnato al comune per incontrare il sindaco, un “fan” del libro molto preoccupato per la scarsa affluenza di turisti in città a causa dello smog. Sono partito la sera stessa per la Mongolia Interna, accompagnato da Jiang Rong, l’autore del romanzo e grande estimatore di Stendhal, da sua sorella, che lavora per una grande società americana, dal marito della donna, economista molto famoso per le sue idee “rivoluzionarie”, e dal compagno di avventure di Jiang Rong, che aveva condiviso con lui il primo viaggio in Mongolia ed è diventato “il” pittore della Mongolia, anche lui grande ammiratore di Meillet, Corot e dei pre -impressionisti della Scuola di Barbizon. Con noi venne anche il presidente dell’emittente tv di Pechino, un funzionario pubblico dinamico e affabile accompagnato da sua moglie, un’ex ballerina.
Fu un soggiorno di 3 settimane nei luoghi della storia, ai piedi delle montagne dove era stato trovato il cucciolo di lupo, sulle rive del lago gelato dove si immersero i loro cavalli, vicino agli allevatori che non hanno dimenticato nulla di quella storia. In seguito ci ha raggiunto un direttore della fotografia originario della steppa più profonda, insieme con la sua compagna, una star della musica pop mongola. Certamente mi sono imbattuto in un gruppo un po’ particolare, che aveva però lo scopo finale di ribaltare l’opinione pubblica che in quegli anni stava cambiando. Gli abitanti delle città stavano soffocando, non potevano uscire senza mascherina. Dovevano utilizzare i loro cellulari per localizzare la via di casa. Ai bambini erano vietate le attività all’aria aperta per il pericolo estremo di contrarre malattie polmonari. La gente che vive in campagna s’intossicava a causa delle acque inquinate o, peggio ancora, veniva cacciata per fare spazio alla cementificazione. Tutto ciò viene riportato quotidianamente dalle tv e dalle radio di tutto il paese.»
Ha goduto di una certa libertà per L’Ultimo lupo?
«Solitamente bisogna aspettare mesi prima che l’ufficio del cinema dia il proprio consenso alla sceneggiatura di un film. La nostra è stata scritta in Francia insieme con Alain Godard e poi conclusa a Pechino da me dopo la scomparsa di Alain. Il giorno che ho consegnato la sceneggiatura alla China Film Group, ho ricevuto le note di lettura come accade negli Stati Uniti, ma con un’amabilità tutta orientale. Tre scene del film sembravano essere problematiche. Inviai una lettera chiedendo la possibilità di girarle comunque e di giudicarle una volta realizzate. La proposta fu accettata così. Queste scene sono rimaste nel film e sono esattamente come le avevo scritte. Tuttavia, la scena in cui si intravede il seno di una delle pastorelle è stata segnalata come “a rischio” perché potrebbe turbare il pudore cinese. Ho rimpiazzato quei due secondi con le immagini, più rispettose, del corpo visto da lontano, di alcune giovani donne mongole. Ho anche corretto due parole nei dialoghi. Credo di essere un miracolato della censura!»
Che cosa pensa della concorrenza con i film cinesi?
«Nel mondo cinematografico odierno credo che la Cina sia per la Francia più un possibile alleato che un concorrente. La concorrenza, in Cina, è americana e non è neanche di buona qualità. I film hollywoodiani che hanno accesso a quello che diventerà a breve il più grande mercato cinematografico del mondo, sono i classici blockbuster, i più prevedibili e i più spettacolari. I professionisti cinesi sono alla continua ricerca di scambio, sono sempre di più gli incontri con i produttori degli altri paesi.»
Gli attori, sono tutti professionisti?
«Per le comparse abbiamo ingaggiato allevatori e dei cavallerizzi del posto. Ma tutti quelli che hanno un ruolo con delle battute, anche poche parole, sono professionisti. Solo i tre protagonisti sono però delle vere star Han, l’etnia dominante in Cina. Gli altri provengono dai quattro angoli più nascosti della Mongolia Interna, selezionati attraverso un casting che mi ha fatto percorrere decine di migliaia di chilometri per incontrarli.»
Per quanto riguarda le macchine con cui ha girato, le è stato dato tutto quello di cui aveva bisogno?
«Il primo giorno di riprese ho fatto preparare le telecamere 3D e mi sono reso conto che non solo erano mal messe, ma che nessuno sapeva come utilizzarle. Ho provato a stento a trattenere la rabbia. Spiegai che non potevamo girare il film in quelle condizioni… tentai di girare la scena con quelle macchine in stato precario. Dopo la pausa pranzo però mi dissero che in realtà gli assistenti avevano fatto una finta manovra e che niente era stato registrato. La metà dei miei amici francesi voleva tornarsene a casa. Il capo operatore di macchina si è chiuso nella sua roulotte a piangere. Ci siamo incaponiti e siamo riusciti a portare a casa la scena complicatissima dell’attacco a cavallo. A quel punto eravamo a Novembre. Quando tornai a gennaio, trovai una sorpresa: due telecamere nuove di zecca provenienti da Monaco, allineate dietro di loro c’erano una quindicina di persone, componenti della squadra di regia, appena tornati dalla Germania dove avevano seguito un corso per l’utilizzo delle telecamere. Un anno dopo la squadra regia è diventata la più preparata con la quale io abbia mai lavorato. Per il resto, alle volte abbiamo dovuto fare i conti con la realtà locale. Al tempo stesso, però, avevo a disposizione dei materiali di lusso ultra moderni, come ad esempio dei proiettori ultrapotenti da 1000KW appesi in cima a delle gru telescopiche, in grado di schiarire la luce notturna in piena tempesta su delle superfici grandi come campi da calcio.»
Quanti eravate sul set?
«480 tecnici, 200 cavalli, circa un migliaio di pecore, 25 lupi e una cinquantina di addestratori e massaggiatori che si occupavano di loro. C’erano anche delle guardie armate e alcuni fattori del luogo con l’idea che avrebbero potuto prendere in prestito qualche nostro lupo per farlo accoppiare con i loro cani.»
Come ha trovato l’utilizzo del 3D?
«Il costo per girare in 3D è enorme, si spende circa 1/3 del budget in più. Ho esitato a lungo. Quello che mi ha convinto a utilizzarlo la sorprenderà: mi sono reso conto che erano le scene riprese da vicino del cucciolo di lupo che ne avrebbero giovato veramente.»
Utilizzando questi mezzi, secondo lei, girare in 3D non incide sulle riprese?
«Ci vuole più tempo per installare tutto, bisogna fare molta attenzione al posizionamento delle luci: il minimo riflesso è una catastrofe, se non c’è lo stesso riflesso sull’oggetto alla tua destra e alla tua sinistra è impossibile poi fondere l’immagine. Bisogna diffidare delle cose in primo piano che prendono sullo schermo un’importanza diabolica. Inoltre un fiocco di neve, una goccia di pioggia o un passerotto che passa davanti all’obiettivo diventano problemi insormontabili: l’elemento disturbante è visibile da un solo occhio!»
Concretamente come funziona la giornata?
«È un discreto incubo! Il lupo è un animale molto selvaggio, sempre sul chi va là. Obbedisce solo al suo capo branco, che a sua volta obbedisce all’addestratore solo quando vuole. Non si lascia avvicinare. Non si lascia lavare quando si è rotolato nel fango. Bisogna aspettare ore, a volte giorni, perché il lupo senta la scena, bisogna essere pronti a scattare nel momento in cui il re decide che è il momento di girare! Avevamo due gruppi, uno dei quali particolarmente difficile. I cuccioli del primo gruppo erano stati presi una settimana dopo la loro nascita e quindi non riconoscevano negli addestratori i loro genitori. Non sono mai riusciti ad addomesticarli. Una vera fortuna per il film…»
Qual è stato il suo sguardo su questi “attori” così particolari?
«I grandi attori spesso sono incontrollabili, deconcentrati, affascinanti ed emotivi. A volte invece sono adorabili, come il nostro capo branco, il re Cloudy, a cui ho affidato il ruolo principale.
Aveva deciso che ero suo amico, potevo accarezzarlo e ogni mattina mi saltava addosso leccandomi il viso. Un privilegio raro, che mi ha fatto buttare numerose giacche a vento e procurato non pochi graffi. La regina Silver, la sua compagna, metteva fine alle nostre effusioni tirandomi i pantaloni e tirandomi i capelli. Mia moglie, mia collaboratrice e scrittrice Laurence, ha capito molto dopo che Cloudy non si chiamava “Claudia”.»
Nessuna paura in nessun momento?
«Durante la preparazione del film a volte mi svegliavo nel cuore della notte, tutto sudato e mi chiedevo: “Come farò a girare le scene con i lupi e i cavalli che si rincorrono?”. Sulla carta aveva tutta l’aria di essere un grande momento di cinema ma oggettivamente mi sembrava infattibile. Alla fine questa scena l’abbiamo girata, acquattati sui nostri quod immersi nella bufera e circondati da centinaia di cavalli accecati dalla neve.»
Non sarebbe stato più semplice aggiungere i lupi in post produzione?
«Questa cosa l’abbiamo fatta per alcune scene del film, una quindicina circa. Questo tipo di lavoro dà dei buoni risultati quando si tratta di scene riprese da lontano su grandi spazi. Al contrario, con questa tecnologia, è difficile ottenere un buon risultato per le scene più intime, le più emozionanti. Le immagini generate dai computer danno sempre un effetto stile cartone animato. Non si percepisce più l’animo o l’istinto di un attore – umano o animale – ma piuttosto l’idea che ne ha il programmatore, il quale spesso trae ispirazione dai video giochi o da immagini elettroniche della sua vita quotidiana.»
L’ultimo lupo è il suo tredicesimo film ma a sentirla parlare sembrerebbe che la sua fame di cinema non sia mai svanita!
«Questo viaggio incredibile è stato talmente divertente, diverso, ricco e caloroso … avrei voluto che durasse di più ma, questo film, che mi è piaciuto così tanto scrivere e mettere al mondo, sarà come tutti gli altri. Avrà una sua vita. Mi lascerà solo sul binario del treno. Ci vorranno settimane o mesi forse per organizzare il prossimo progetto.»
Lei ha fatto un film dietro l’altro, non ha mai voglia di prendersi veramente una pausa?
«Laurence, mia moglie, che mi accompagna sui set e nella vita dai tempi de Il sostituto, sorride quando le chiedono delle nostre vacanze. Racconta sempre come, mentre ci facevamo trasportare dal fiume Niger, io fossi intento a scrivere la sceneggiatura de Il nome della rosa, totalmente non curante del fatto che la nostra imbarcazione era stata attaccata da un branco di ippopotami. O di come, mentre facevamo trekking in Gibbuti, scribacchiavo su un taccuino tutta l’attrezzatura tecnica che mi sarebbe servita per Il nemico alle porte. Le parole vacanza, hobby, sport e distrazione mi annoiano. Pratico un solo sport, uno sport estremo, il cinema. Ho amato ogni giorno l’incredibile privilegio di essere un regista… una fortuna che il mio mestiere mi permette di condividere con gli altri.»